Dopo una prima accelerata, l’autonomia differenziata si è riallineata dietro la safety car del governo. Calderoli, ministro per gli Affari regionali e le autonomie, è sembrato voler saggiare gli interlocutori: favorevoli, contrari, aperturisti, ostili sempre-e-comunque. “Sono anche disponibile a riscrivere tutta la bozza”, ha dichiarato dopo il fuoco di sbarramento proveniente dai governatori Emiliano e De Luca, capifila di un variegato “partito” che di autonomia regionale non vuol sentir parlare.



Poi l’autonomia è stata rimessa in attesa, soprattutto dopo che da ambienti di governo riconducibili a FdI si fatto capire che la riforma va fatta insieme al presidenzialismo e alla riforma di Roma capitale. E infine, a tornare sul tema, è stato Sergio Mattarella.

Ne abbiamo parlato con Stelio Mangiameliordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo ed esperto di regionalismo, per il quale il confronto risulta inquinato dal disordine che si è accumulato fino ad oggi. Soprattutto durante il governo Conte 2.



“Non solo non si sa quale sia l’oggetto di cui discutere – spiega Mangiameli al Sussidiario – se legislazione o amministrazione; ma soprattutto, nel caso di conferimento di funzioni amministrative, non si sa come finanziarle”. E questo perché il vero problema, “la disciplina dell’art. 119 Cost., concernente l’autonomia finanziaria delle Regioni, è totalmente trascurato”.

La bozza del Ddl Calderoli dice che si tratta di definire “i principi generali per l’attribuzione delle funzioni, connesse con il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”. In concreto quale dev’essere l’obiettivo della riforma?



Intanto va detto che il dibattito sulle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, in realtà, si è molto complicato nel corso delle ultime legislature, senza approdare ad una positiva soluzione tanto per le Regioni, quanto per lo Stato che ne potrebbe beneficiare in termini di riduzione dei suoi compiti e quindi di maggiore attenzione ad attività più propriamente nazionali.

Intanto, “quelle forme e condizioni particolari di autonomia” sono quelle previste dall’art. 116 della Costituzione.

Ecco, se letto correttamente, il 116 c. 3 riguarda le competenze legislative regionali, e le richieste delle Regioni dovrebbero riguardare essenzialmente la deroga ai limiti della legislazione concorrente. Per questo quella espressa dalla disposizione costituzionale si chiama “clausola di asimmetria”.

E invece?

Invece, nel caos generale venuto dal modo in cui è stato attuato il riparto, il confronto tra Stato e Regioni si è compiuto sulle funzioni amministrative e in nome del principio di differenziazione, che governa – insieme al principio di sussidiarietà e adeguatezza – l’attribuzione di queste come previsto nell’art. 118, comma 2, Cost.

Ci faccia capire meglio, per favore.

Asimmetria e differenziazione sono concetti costituzionali diversi con discipline poste in articoli della Carta distinti, che indicano procedimenti differenti, ma tutto questo nel dibattito corrente, sia politico che giornalistico, è andato perduto, per cui assistiamo alla marginalizzazione del Parlamento e dei Consigli regionali, cui compete l’iniziativa, e all’incentrarsi della negoziazione tra il governo e le giunte regionali, per siglare le intese; e non si sa bene cosa è compatibile sul piano costituzionale e cosa invece può far aumentare il caos del sistema regionale italiano.

In termini non tecnici ma sostanziali, come si motiva questa riforma? Lei sostiene la tesi che l’autonomia serve per impedire che il Nord diventi come il Sud. Che significa?

Il sistema italiano è attraversato da sempre da un dualismo che comporta un divario che una politica repubblicana seria avrebbe dovuto risolvere o, quanto meno, attenuare; e invece le condizioni negative del divario non solo sono aumentate considerevolmente, ma stanno finendo con il contagiare anche le Regioni del Nord. Per questo bisogna intervenire “prima che il Nord somigli al Sud”.

Può fare un esempio?

Ce n’è uno sotto gli occhi di tutti. I laureati meridionali da sempre emigrano e ciò porta ad una carenza di capitale umano; adesso hanno iniziato ad emigrare anche dalle Regioni del Nord e tutti vanno all’estero. Questo vuol dire che nel medio termine, se non si cambia, ci saranno problemi di capitale umano anche al Nord. La causa di ciò è da ricercarsi nei bassi salari dei giovani, nelle difficoltà crescenti di inserimento, nella sottovalutazione del merito, eccetera.

E parliamo delle Regioni più ricche del Paese.

Appunto. È vero che le tre Regioni che chiedono il regionalismo differenziato – Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna – producono poco meno del 50% del Pil, eppure oggi il loro Pil è inferiore di circa il 25% rispetto a quello dei migliori Länder tedeschi. Ed è tanto.

È diffusa – oppure è stata alimentata ad arte, ma non fa differenza – l’idea che l’autonomia differenziata serva a trattenere nella Regione che la chiede la quota maggiore di gettito fiscale. Di conseguenza più una Regione è economicamente sviluppata, più con l’autonomia si arricchisce, più lascia indietro le altre, spaccando il Paese. Cosa risponde? 

Questo è l’altro nodo del problema. Non solo non si sa quale sia l’oggetto di cui discutere, legislazione o amministrazione; ma soprattutto, nel caso di conferimento di funzioni amministrative, non si sa come finanziarle. La ragione è semplice, ed è che la disciplina dell’art. 119 Cost., concernente l’autonomia finanziaria delle Regioni, è totalmente trascurato.

Come si spiega?

Ma perché la legge sul federalismo fiscale (42/2009) fu approvata 13 anni fa e il decreto legislativo dell’autonomia finanziaria regionale (D.Lgs. 68/2011) è stato emanato 11 anni fa. Da allora, l’entrata in vigore del decreto legislativo è stata di continuo rinviata e di fatto il decreto non è entrato sinora in vigore. Non è molto serio e lo Stato – Parlamenti e Governi che si sono succeduti – non ci fa una bella figura.

Ci sono state tante cose in mezzo: la crisi economica, poi la pandemia e poi ancora la guerra e la crisi energetica.

Non è serio lo stesso. Le riforme aiutano a migliorare la performance e perciò non si giustifica mai il non farle.

Tornando al regionalismo differenziato?

In assenza dell’autonomia finanziaria, si è pensato di finanziare le ulteriori funzioni conferite con i perversi meccanismi delle Regioni speciali, sperando di fare tutti come Trento e Bolzano che trattengono il 90% del gettito, ma questo è concretamente impossibile da praticare per la differenziazione. E qui si blocca di nuovo l’intero sistema e si aizzano le Regioni del Sud contro quelle del Nord. Insomma perdono tutti, Stato compreso.

Prima si fissano i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e i fabbisogni standard e poi si fa il trasferimento di funzioni, dice la bozza Calderoli. Tuttavia i Lep oggi sono una “scatola” misteriosa. Cosa c’è dentro? Ci fa un esempio comprensibile?

Questo modo di ragionare è servito al Governo Conte 2, ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia, a mettere in stand-by le Regioni che chiedevano appunto “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” e in pratica il conferimento differenziato di funzioni amministrative. Nella bozza del Ddl di Calderoli di fatto il problema viene rappresentato, ma è concretamente superabile.

Come?

Primo, non è pensabile che funzioni esercitate dallo Stato, come l’istruzione, siano espletate senza livelli essenziali delle prestazioni. Secondo, nell’immediato, Lep o non Lep, il fabbisogno finanziario standard – cioè i costi standard per numero degli aventi diritto alla prestazione – è pressoché uguale alla spesa storica, per cui non occorrono grandi calcoli. Terzo, questi argomenti servono a non fiscalizzare le entrate delle Regioni ordinarie, cioè si tende a fare trasferimenti anziché attribuire basi imponibili che assicurerebbero maggiore autonomia finanziaria alle Regioni. Ovviamente, tutto questo obbedisce a ragioni politiche e non a questioni di carattere istituzionale.

Ipotizziamo che una regione chieda tutte le materie di legislazione concorrente previste dal 117, comma 3, Cost. È possibile? Le sarebbero accordate? Detto in altri termini: non c’è una divaricazione troppo ampia tra i quesiti sottoposti agli elettori nel 2017 e le richieste avanzate poi dalle Regioni del Nord?

Cominciamo dalla fine. Non c’è dubbio che le popolazioni lombarda e veneta vogliono più autonomia, per ragioni che qui non si possono neppure riassumere; anzi, sono così deluse dal fatto di non averla ottenuta, che in parte hanno cambiato cavallo politico nelle recenti elezioni politiche. Quanto al numero delle materie e alle relative funzioni amministrative che vi rientrano, nessuno dice che nelle materie di competenza concorrente le funzioni amministrative sono attribuite costituzionalmente alle Regioni.

Questo cosa vuol dire?

Vuol dire che le Regioni stanno negoziando funzioni che avrebbero dovuto essere loro – di tutte le Regioni – già a partire dal 2001. Può sembrare strano, ma lo Stato, fatta la revisione del Titolo V, ha trattenuto i poteri di spettanza regionale, arrestando una devoluzione di competenze significativa per la competitività della Repubblica e dando luogo al caos nel quale siamo.

Ci spiega come può essere garantita “l’invarianza finanziaria” di cui alla bozza Calderoli?

L’invarianza finanziaria è possibile, ma difficilissima da ottenere. Faccio un esempio: ipotizziamo che l’istruzione implichi una spesa di 10: 4 per la Lombardia, 3 per il Veneto e 3 per l’Emilia-Romagna. Se lo Stato trasferisce 10 alle tre Regioni insieme alle funzioni che prima esercitava nella materia dell’istruzione, nella finanza complessiva a livello di spesa si determina una condizione di invarianza. Concretamente, non è così.

E cosa succede invece?

Per un verso può accadere come ai tempi della legge Bassanini in cui le Regioni aumentarono le loro spese in ragione delle funzioni amministrative che erano state loro conferite con il D.Lgs. 112/1998, ma lo Stato non ridusse in modo corrispondente le sue, per cui non vi fu invarianza e il debito pubblico aumentò, e la responsabilità, nonostante fosse dello Stato, fu attribuita alle Regioni.

Altrimenti?

Per altro verso, nel caso di regionalismo differenziato che riguarda solo poche Regioni, non è neppure detto che lo Stato possa ridurre le sue spese in modo significativo, perché comunque deve provvedere allo svolgimento delle funzioni per il resto del territorio nazionale, per cui anche in questo potrebbe non esserci invarianza e aumento del debito.

Ma scusi, allora vuol dire che l’autonomia differenziata ci costerà di più.

No, significa che più il decentramento si diffonde, più si possono ridurre le spese.

Calderoli prima ha premuto l’acceleratore, poi il freno. “Sono anche disponibile a riscrivere tutta la bozza” ha detto il 19 novembre a Repubblica. Il governo ha cominciato nel modo giusto?

La politica è l’arte del possibile e il ministro Calderoli, per forza di cose, deve dichiararsi disponibile a qualunque evenienza, anche se devo dire che una maggiore preparazione preliminare del terreno sarebbe stata utile a fare accettare l’idea della differenziazione regionale.

Calderoli si è fermato anche perché, hanno fatto filtrare ambienti di governo, l’autonomia differenziata deve andare di pari passo con il presidenzialismo e la riforma di Roma capitale. È il modo corretto di procedere oppure è solo politica?

È solo un negoziato politico che deriva dalla necessità di trovare un equilibrio, non tanto all’interno della maggioranza, quanto davanti al corpo elettorale.

In che senso?

Vede, l’ipotesi del regionalismo differenziato appare come una forma di maggiore disunione, anche se una simile rappresentazione è infondata; e il presidenzialismo appare come una forma di maggiore unione, per cui si cerca di bilanciare in questo modo le diverse esigenze politiche.

(Federico Ferraù)

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