Quando questioni altamente tecniche vengono fatte proprie dalla politica come proprio cavallo di battaglia o cardine di un’opposizione a tutta piazza è difficile che la ragione trionfi. Questo a maggior ragione se si considera la difficoltà tecnica dell’argomento, a partire dalla vulgata con cui se ne tratta, il termine “autonomia”, termine dai plurimi significati, ma che – intuitivamente – significa, anche, differenziazione.



Non sarebbe un ente “autonomo” se non fosse in grado di prendere decisioni diverse dal suo omologo; se questo non è chiaro, si può tranquillamente dire di essere contro “l’autonomia”, ma con ciò indicando tutt’altro, in questo caso la legge da poco approvata dal Parlamento di attuazione dell’art. 116, comma 3 della Costituzione che prevede, sul modello spagnolo, che si possano avere regioni con funzioni diverse le une dalle altre come diverse sono, a vista d’occhio, le regioni italiane.



Il problema, come si diceva, è la natura amministrativa e tecnico-finanziaria di quanto previsto dalla legge Calderoli, prima di intraprendere il quale saranno necessari importanti passi prodromici quali la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni e dei relativi costi e fabbisogni standard, tappa a sua volta prodromica alla riorganizzazione del sistema della finanza locale da porre in essere sulla base dei principi del cosiddetto “federalismo fiscale” (espressione anch’essa solo suggestiva e non pienamente definita).

Sembra di sentir parlare un azzeccagarbugli – me ne rendo conto -, ma di questo si tratta o, se si vuole, anche di un ripensamento generale del regionalismo nostrano che, a vent’anni dalla riforma del Titolo V, Parte Seconda, della Costituzione, necessita di non poche riparazioni. Ma, dopo il fallimento della riforma Renzi-Boschi, nessuno pensa di mettervi mano sul piano costituzionale spostando il tiro dalla riforma della riforma (che sarebbe importante) all’attuazione di una singola norma – l’art. 116, comma 3, già citato – che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbe dovuto essere una norma a cui ricorrere per porre rimedio a singole disfunzioni dell’apparato delle funzioni regionali, essenzialmente amministrative, che si erano prodotte a seguito dei processi di attuazione del regionalismo nel suo insieme.



Una visione minimalista dunque di un problema che ora ha assunto proporzioni abnormi a causa del confronto politico, ma anche a causa dell’impianto della legge ora approvata che, come si legge nel testo, mette insieme questioni molto complesse e fondamentali per la vita del Paese, tra cui principalmente la riorganizzazione del nostro stato sociale. Che, cogliendo l’occasione della discussione sulla legge in esame, tutto il Sud del Paese e molte delle forze sociali dello stesso – tra cui la Chiesa cattolica nei suoi vertici – chiedano a gran voce di non accentuare ma, anzi, di porre rimedio alle diseguaglianze – comprese quelle infrastrutturali – presenti nell’Italia di oggi, non stupisce, ma deve anche essere chiaro che questa è tutta un’altra questione.

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