Assistiamo in queste settimane ad una forte accelerazione politica verso l’autonomia differenziata: il governo appare determinato ad attivare il relativo percorso su spinta delle Regioni che già lo avevano attivato (con o senza referendum) nelle precedenti legislature, da quella gialloverde a quella – assai meno entusiasta – giallorossa; mentre l’opposizione parlamentare – ma non solo – spinge in senso contrario per paura della “secessione dei ricchi”, cioè del tentativo di drenare risorse pubbliche verso le Regioni richiedenti le “forme particolari di autonomia” (art. 116, co. 3), che si pongono anche come le più efficienti.
Sul piano dottrinale, il dibattito è vivace e ricco di spunti ma anche di contraddizioni e si articola su alcune domande tanto fondamentali quanto irrisolte.
Solo per citarne alcune, va ricordato che vi è chi sostiene che sia possibile attivare il percorso applicando direttamente l’art. 116, co. 3 della Costituzione, secondo cui basta che vi sia un’intesa tra il Governo e la singola Regione richiedente per richiedere al Parlamento di approvare a maggioranza assoluta. Vi è invece chi è dell’idea che occorra, preliminarmente, una legge di attuazione della norma costituzionale, in cui si stabiliscano le condizioni del percorso, tra cui – ad esempio – la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali che devono essere erogate uniformemente su tutto il territorio nazionale; questa seconda ipotesi risultando forse più ragionevole date le molte incertezze che il dettato costituzionale contiene in sé.
Anche sui livelli essenziali citati il dibattito è acceso, visto il timore delle Regioni che non sono interessate all’intesa di veder sfumare le risorse che ricevono dallo Stato: ci si può chiedere se aver stabilito livelli essenziali di prestazioni possa essere considerata una garanzia sufficiente perché resti l’eguaglianza sostanziale e se i tempi per giungere a questo risultato non siano eccessivamente lunghi. Entrambe le domande – ma soprattutto la prima – sono ancora molto aperte, senza che il dibattito sia giunto a elaborare soluzioni convincenti.
E, infine, a fianco dei sostenitori strenui delle richieste regionali, vi sono altrettanto strenui oppositori che invocano l’unità e indivisibilità della Repubblica ex art. 5 Cost. per negare ai primi la possibilità di ricorrere all’autonomia differenziata, giungendo ad invocare l’abrogazione dell’art. 116, co. 3 Cost.
In questo articolato e multiforme panorama di opinioni risulta difficile porre le questioni sostanziali, quali – ad esempio – di cosa realmente si tratta, se di richieste di dettaglio formulate per migliorare l’efficienza delle attività delle Regioni o se si vuole arrivare davvero alla “disgregazione” della Repubblica modificando in modo radicale il riparto delle competenze tra Stato e Regioni previsto in Costituzione. Così come si tace su un altro punto cruciale della questione, vale a dire la riforma degli apparati centrali dello Stato, che presenta anch’essa tratti di urgenza. Per tacere degli aspetti finanziari, che rimangono tutto sommato in sottofondo se non come mantra in forza del quale invocare lo stop a qualsiasi forma, anche soft, di differenziazione.
Così, mentre la politica sta sulla big picture, i tecnici dovrebbero cominciare a lavorare di fioretto, entrando in merito alle singole richieste regionali (sulla base, per esempio, delle bozze elaborate nella scorsa legislatura e già in parte esaminate e contrattate in sede governativa) e valutando se tali richieste siano coerenti e compatibili con un quadro nazionale unitario che nessuno intende distruggere.
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