Dopo l’episodio della presentazione da parte del ministro per gli Affari regionali di numeri clamorosamente sbagliati sulla ripartizione della spesa pubblica a livello territoriale, è arrivato il documento di dodici pagine in forma di “Appunto per il Presidente del Consiglio dei Ministri” del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi (DAGL), che mette in discussione dalle fondamenta il progetto di autonomia regionale asimmetrica, come è stato perseguito finora.



Anche il procuratore generale della Corte dei conti, nel corso della presentazione del Rendiconto generale dello Stato, ha espresso seria preoccupazione per gli effetti “assai deleteri” che avrebbe l’autonomia se spingesse la crescita solo in alcune parti del Paese, con una visione meramente localistica, e ha sostenuto che l’autonomia può determinarsi solo in simbiosi con il principio di responsabilità.



Quindi, nonostante il tentativo della Lombardia e dell’Emilia-Romagna di distinguersi dal Veneto, scegliendo, anziché lo scontro diretto sul trasferimento di competenze, una strada trasversale rappresentata dalla delega di “funzioni” alle Regioni, il quadro che emerge è di una brusca frenata del “testo base” sull’autonomia differenziata che doveva essere approvato dal Governo in questi giorni. E non è affatto un male per l’Italia nel suo insieme, per i cittadini del Nord e del Sud, che si ritroverebbero in un Paese ancora più isolato e frammentato se passasse quest’idea di disarticolazione dello Stato unitario.



La Lombardia ha chiesto il decentramento di 131 funzioni, all’interno di 20 competenze accorpate in 6 aree tematiche (istituzionale; finanziaria; ambiente, territorio e infrastrutture; economica e del lavoro; cultura, istruzione e ricerca scientifica; sociale e sanitaria), e ha ottenuto dai singoli ministeri ben 98 funzioni delegate, continuando a battersi per averne altre 5 considerate essenziali. Dal versante della Regione più forte, si tratta di una competizione svolta apparentemente solo sul piano amministrativo.

Per quello che è dato di sapere – dato che gli schemi di intesa rimangono ancora segreti – per il momento si sono lasciate da parte le norme legislative con i relativi “poteri” e il “residuo fiscale”, ovvero, l’appropriazione delle imposte versate a livello territoriale. Tuttavia, il tema del rientro del saldo fiscale è solo rinviato a una sede successiva di confronto politico, al di fuori delle “intese”, e le funzioni che sarebbero delegate comportano anche il trasferimento della gestione dei relativi servizi e delle relative risorse finanziarie.

Questo aspetto non è per nulla tranquillizzante, dato che i tavoli sono bilaterali e prevedono un coinvolgimento unicamente delle tre Regioni interessate, escludendo le altre istituzioni dal confronto.

In ogni caso, il testo elaborato dal DAGL, nella sua versione integrale, è del tutto esiziale, andando oltre molti degli argomenti degli oppositori più intransigenti. Innanzitutto, viene messo in dubbio che si possano delegare alle Regioni tutte le materie di competenza concorrente senza violare la Costituzione e si paventa il rischio della creazione surrettizia di nuove Regioni a statuto speciale. In relazione a diverse competenze (in materia di coordinamento della finanza pubblica del sistema tributario; di ambiente ovvero di grandi opere di trasporto e navigazione; di produzione, distribuzione e trasporto nazionale dell’energia; norme generali sull’istruzione), si osserva che “risultano strutturalmente non devolvibili interamente alle Regioni”.

Nel documento, poi, si afferma con decisione che “a prescindere da qualsiasi previsione specifica da inserire nell’intesa, lo Stato sia competente ad intervenire, anche nelle materie trasferite, nell’esercizio della propria legislazione esclusiva, allorché sia necessario provvedere alla fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, dettare norme in materia di ordinamento civile e di tutela della concorrenza”. Inoltre, a difesa “dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”, lo Stato può intervenire, ai sensi dell’articolo 120 della Costituzione. Infine, l’autonomia coinvolge anche ambiti di esclusiva competenza dello Stato, che potrebbero configurare disparità di trattamento tra Regioni o limiti alla libertà di circolazione delle persone e delle cose tra i diversi territori o, ancora, limiti all’esercizio del diritto del lavoro all’interno del Paese. Perciò, il trasferimento ad alcune Regioni di attività e servizi a forte impatto redistributivo, come l’istruzione e la sanità, può minare fortemente i diritti di cittadinanza e creare grave incertezza nei criteri di assegnazione delle risorse.

Basterebbero questi rilievi per fermare definitivamente la macchina impropriamente messa in moto e cercare, invece, obiettivi equanimi e modalità unitarie per coniugare autonomia e responsabilità.

Però, la nota prosegue con una parte procedimentale, sostenendo che “appare necessario garantire il ruolo del Parlamento, assicurando nelle diverse fasi procedurali un adeguato coinvolgimento dell’organo parlamentare”, attraverso una legge “rinforzata”, ma di tipo ordinario. Tale legge – udite, udite – dovrebbe essere emendabile nei contenuti, perché legata in modo ineluttabile alla libertà della funzione legislativa e al ruolo costituzionalmente assegnato alle Camere. In caso di approvazione di una legge del tutto o in parte difforme dal testo di partenza, si dovrebbe rivedere o adeguare l’intesa e/o tornare a votare la norma in Parlamento.

A queste osservazioni pregnanti, si sommano le valutazioni sull’ampiezza e sull’identità delle materie conferite alle tre Regioni e sull’organizzazione squilibrata degli uffici e delle strutture delle amministrazioni pubbliche che ne deriverebbe (facendo venire meno perfino i principi di efficienza e di efficacia, che pure si dice di voler perseguire).

Molto gravi appaiono altri due aspetti evidenziati nella nota. Il paradosso secondo cui, in mancanza della definizione dei fabbisogni standard, dopo tre anni dal varo delle intese, le Regioni con maggiore autonomia riceverebbero un insieme di finanziamenti superiori alla stessa spesa storica che si vorrebbe abolire, facendo invece lievitare consistentemente il debito pubblico del Paese, e l’assoluta mancanza negli schemi di Veneto e Lombardia di una disposizione che confermi i limiti costituzionali alle deleghe e il ruolo dello Stato unitario.

Alla fine di quest’analisi, si comprende l’assoluta impossibilità di procedere in una direzione dannosa e dirompente, a causa di chi si è voluto spingere fin qui scriteriatamente.

Una proposta di buon senso potrebbe essere quella di riportare la materia nelle sedi opportune, a cominciare dalla Conferenza delle Regioni e di quella Stato-Regioni, per realizzare un livello di autonomia condiviso. E di aprire un confronto coraggioso per unire il Paese, coinvolgendo le forze produttive, le energie intellettuali, i corpi intermedi sani e i cittadini in un processo di riforma, che valuti l’assetto istituzionale nazionale e quello delle Regioni in modo equilibrato e moderno, per adeguarlo alle esigenze ineludibili di competitività e di sviluppo dell’Italia.