A poco a poco che ci avvicineremo al voto per il Parlamento europeo (in Italia l’8 e il 9 giugno) s’intensificherà la polemica sull’autonomia differenziata. La possibilità, cioè, per ciascuna delle regioni di chiedere allo Stato centrale il trasferimento di alcune – molte, fino a ventitré – competenze e delle risorse che servono ad attivarle. Com’è noto, in prima fila per accedere a questa opportunità costituzionalmente garantita ci sono la Lombardia, il Veneto e l’Emilia Romagna.
Si tratta di una battaglia che la Lega si è intestata recuperando un’istanza fortemente identitaria alla base della nascita stessa del movimento politico contro il centralismo burocratico di Roma e il nullafacentismo del Mezzogiorno. Dunque, dopo tanti anni di parole senza seguito si sta realizzando in Parlamento quella svolta istituzionale tanto desiderata da alcuni e altrettanto osteggiata da altri. Sarà il tema forte da utilizzare in campagna elettorale.
In sé, concedere più funzioni e i relativi fondi in periferia non si può considerare giusto o sbagliato. Si tratta di organizzare diversamente la governance dello Stato tenendo sempre comunque conto che la nazione dovrà restare una e indivisibile anche se ci sono diversi modi d’interpretare la prescrizione. In linea di principio, tutti possono concorrere per ottenere le stesse concessioni e la scelta di alcuni di farsi avanti non dovrà mai andare a detrimento di chi non lo fa.
Insomma, un saggio sistema di pesi e contrappesi dovrebbe assicurare a tutti i cittadini lo stesso trattamento a prescindere dal luogo in cui si vive e dal regime amministrativo adottato. Per riuscire in questo intento si dovranno definire i Lep – Livelli essenziali delle prestazioni – come soglia minima di qualità sotto la quale non sarà lecito far precipitare i servizi offerti. Nelle intenzioni, un buon proposito che dovrebbe mettere gli italiani sulla stessa linea di partenza.
Perché, allora, questa riforma passa per la secessione dei ricchi? Perché fior di esperti, amministratori, imprenditori ritengono questa opzione come punitiva del Sud, abbandonato a un destino di crescente povertà? Perché non si considera invece la possibilità di fare di necessità virtù e approfittare della circostanza per sviluppare una maggiore capacità competitiva e fare concorrenza al Nord sullo stesso terreno di sfida mostrando di essere più bravi?
Leggendo i commenti e le reazioni dei tanti – e spesso autorevoli – attori che stanno intervenendo sull’argomento, pare di capire che ciò che più manca è la fiducia. Fiducia che le promesse di eguale trattamento siano davvero mantenute. Fiducia che se le cose dovessero mettersi male si riuscirà a rimediare. Fiducia che l’intero processo di trasformazione sia accompagnato da buona volontà e buona fede. Al contrario, il sentimento oggi dominante è quello della diffidenza.
Si gioca in difesa per l’assoluta certezza che non ci sarà alcuna possibilità di farlo in attacco. Che le regole del gioco sono truccate e al di là delle rassicurazioni verbali l’intenzione dei proponenti è proprio quella di spaccare il Paese – ancora di più perché la distanza tra nord e sud continua a crescere ogni anno – portando maggiore benessere dove c’è già e meno dove manca. Una prospettiva certamente da contrastare se dovesse manifestarsi come vera.
Poiché il treno di questa riforma è in viaggio, e non sarà facile fermarlo con i discorsi e gli articoli di giornale, potrebbe essere più utile presidiare le stazioni di passaggio perché rispondano ai criteri stabiliti. Se Lep devono essere, che Lep siano. E se non ci sono i soldi per assicurarli a tutti, che si aspettino tempi migliori. Nel frattempo, sarà bene che al Sud si selezioni e metta al prova un ceto dirigente all’altezza dei compiti che prima o poi sarà chiamato a svolgere.
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