Corrono le firme online per il referendum sull’abrogazione dell’autonomia differenziata come più e meglio non potrebbero. Se fossero iscritte alle Olimpiadi di Parigi, sarebbero destinate a prendere l’Oro. Poi ci sono le sottoscrizioni ai banchetti dislocati nei punti nevralgici delle città. In pochi giorni è stata superata quota 500.000 con uno slancio che nemmeno i promotori si aspettavano.



Risultato: a meno che la Corte Costituzionale non eccepisca qualche vizio o debolezza del procedimento, la consultazione popolare sulla norma Spacca Italia, com’è definita dai suoi detrattori, si farà. Anche le Regioni dissenzienti del Sud si stanno dando da fare per opporsi alla riforma e quindi è assai probabile che si andrà al voto per decidere se cancellare o meno la norma controversa.



Gli organizzatori del dissenso sono naturalmente molto soddisfatti di come sta andando la loro campagna. Ma sanno che il primo grande ostacolo da superare è rappresentato dal raggiungimento del quorum: perché l’esito sia valido occorre che all’urna si rechi almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto a esprimere la propria preferenza. Una barriera non da poco in tempi di forte astensionismo.

Anche per questo, il confronto (lo scontro) sta conoscendo toni via via più drammatici. Occorre che il popolo, soprattutto quello meridionale, si metta paura per essere indotto a preferire il seggio elettorale al mare. È già accaduto in passato, potrebbe succedere anche oggi. Il tam tam sta funzionando e la vivacità con cui il tema è seguito sulla rete è sintomo di un interessamento crescente.



Anche perché le argomentazioni contro quella che passa come legge Calderoli (dal nome del suo principale promotore) sono ben costruite e dotate di senso da gruppi organizzati di costituzionalisti, giuristi, economisti, professionisti, giornalisti che hanno abbraccio la causa facendone una battaglia di civiltà: il Paese è diviso, non c’è bisogno di frammentarlo ulteriormente.

Ed è vero che il Paese è già diviso. Basti pensare che un cittadino del Centro-Nord guadagna in media il doppio del suo corrispondente nel Meridione. Non esiste in Europa una differenza così netta tra parti della stessa comunità nazionale. Perfino in Germania il reddito procapite dell’est ex sovietico si è avvicinato a quello dell’ovest atlantico. E questo accade nonostante la retorica unitaria.

Si dirà che molti soldi sono stati sprecati con l’intervento straordinario e quello che gli è succeduto, che la maggior parte dei fondi destinati al Sud non sono stati mai spesi per mancanza di progettualità, che l’unico ad aver beneficiato degli stanziamenti è il malaffare. Qualcosa di vero c’è, ma è anche vero che lo Stato si è mostrato spesso latitante e che la situazione si è mal pietrificata.

Insomma, a menare la danza oggi è la spesa storica che assicura maggiori risorse a chi più ne ha avute nel passato. Una chiara incongruenza se davvero si vogliono avvicinare le due Italie. Per cui si punta oggi sul criterio dei Livelli minimi delle prestazioni (Lep) che dovrebbe garantire trattamenti uniformi lungo tutto lo Stivale. Ma il costo è proibitivo e c’è molta diffidenza.

Comunque dovesse finire questa storia – che vinca il Nord desideroso di trattenere più risorse sul territorio e avere mano libera sul maggior numero possibile di materie o il Sud che si ribella a quello che appare come il secessionismo dei ricchi – è abbastanza evidente che una soluzione convincente per mettere il Paese nelle condizioni di funzionare al meglio ancora non si vede.

Potrebbe essere questo, in particolare, il momento che il Mezzogiorno e le sue menti più brillanti (ce ne sono più di quante s’immagini) finiscano di giocare in difesa e partano al contrattacco. Col catenaccio in essere è possibile che il regionalismo spinto non passi. Ma il Sud non può adattarsi alla pura e semplice resistenza. Deve trovare il guizzo e la responsabilità di proposte sensate e migliorative.

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