Gli ultimi rumour su autostrade e dintorni ieri sono stati accolti con favore dagli investitori che hanno regalato ad Atlantia una bella giornata di borsa. Il rialzo ha sfiorato il 4% nonostante l’ennesima “disavventura legale” con gli uffici di alcune controllate perquisiti dalla Guardia di finanza per un nuovo filone dell’inchiesta scaturita dal crollo del ponte Morandi; questa volta le indagini si concentrano sulle barriere fonoassorbenti e sulla loro sicurezza. Uno sviluppo che arriva nello stesso in giorno in cui il rumour di un accordo che vedrebbe Cdp entrare nel capitale di Atlantia, o forse della controllata Autostrade per l’Italia, è stato rilanciato da Milano Finanza. È un’ipotesi di cui si è già parlato e che evidentemente “entusiasma” gli investitori.



Nessuno ha fatto ipotesi di prezzo o di quote, ma un accordo di questo tipo con lo Stato che entra direttamente o indirettamente nel capitale del concessionario farebbe venire meno qualsiasi incertezza regolamentare. È difficile che il Governo vada a penalizzare un proprio investimento ed è forse più difficile che una controversia legale di qualsiasi tipo diventi una battaglia cruenta senza esclusione di colpi. L’entrata di Cdp nel capitale del concessionario significa, per le menti semplici degli investitori, che la querelle è più o meno finita, che le ipotesi più penalizzanti non sono più sul tavolo, che il quadro rimane quello che conosciamo e forse che c’è un’assicurazione sulla vita per il tempo, tanto, che manca alla fine della concessione. Dopo le indagini degli ultimi mesi questa soluzione probabilmente starebbe bene anche al concessionario. Il rischio di perdere tutto vale sicuramente la perdita certa di un pezzo.



Stilisticamente però non è una soluzione bellissima. Avere il controllore, lo Stato in una sua forma seppur indiretta, nell’azionariato di uno specifico controllato, uno dei tanti concessionari pubblici, non è il massimo della vita. Bisognerebbe poi chiedersi quale sia il modello, tra i tanti possibili, che il Governo italiano vuole adottare. Lo Stato monopolista è un’ipotesi che non viene considerata, ma anche il modello che è stato seguito negli ultimi 20 anni non ha dato risultati brillantissimi; i rendimenti garantiti sono stati molto elevati anche in fasi molto difficili dell’economia nazionale e si nutrono dubbi sia sulla sicurezza della rete, sia, soprattutto, sulla sua adeguatezza rispetto alle esigenze attuali. Pagare rendimenti a due cifre per mantenere l’esistente, oltretutto senza rischi, è un obiettivo minimo che potrebbe essere migliorato.



La soluzione prospettata ieri ha il pregio di chiudere la vicenda in tempi brevi con minimi “danni collaterali”, ma sembra decisamente una scorciatoia con cui non si affrontano i problemi veri: sia quelli che hanno portato al crollo del ponte e forse ad altre “mancanze”, sia quelli di un rapporto tra concedente, lo Stato, e concessionario che è stato molto sbilanciato. Si chiude la vicenda passata e in un certo senso si chiudono anche quelle future mettendo un azionista “di peso” nell’azionariato del concessionario che in qualche modo fa da scudo per mille possibili inconvenienti. La cornice, la concessione e tutto il resto rimangono identici.

La questione è palesemente di politica industriale in senso lato. Sulle autostrade passano merci, turisti e pendolari e l’infrastruttura è stata costruita e pensata per un traffico molto inferiore e per macchine molto più piccole. Siccome sulle autostrade italiane si raccolgono molti miliardi di pedaggi all’anno, sostanzialmente tasse, bisognerebbe chiedersi per fare cosa e con che remunerazione massima per chi gestisce un monopolio. In Svizzera con qualche decina di franchi si gira tutto l’anno; sono scelte di politica industriale e fiscale.