Ennesima puntata della lunga vicenda Autostrade: fonti di stampa riferiscono di un lungo colloquio tra il numero uno di Atlantia, Carlo Bertazzo, e l’amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti, Fabrizio Palermo. Il lettore, forse giustamente preoccupato da altre questioni, potrebbe chiedersi: ma cos’hanno ancora da discutere? Non è stato tutto risolto nella famosa notte di luglio, seguita dalla dichiarazione del primo ministro Conte e dall’esultanza, non proprio istituzionale, dell’ex ministro Toninelli?
No, evidentemente non era stato tutto deciso; anzi, via via che si è cercato di dare attuazione a quell’accordo di massima i problemi sono venuti fuori, a cominciare dal fatto che le “autostrade” non sono solo dei “Benetton” (che in modo indiretto ne possiedono il 25,6%) e che quindi nella vicenda sono implicati importanti attori internazionali, assicurazioni tedesche e fondi del Governo cinese, oltre che una miriade di investitori, tutt’altro che disposti a subire le decisioni dell’esecutivo italiano, soprattutto quando queste si collocano fuori dalle regole del mercato.
L’accordo stabilisce, a grandi linee, che la società Autostrade per l’Italia possa continuare a esercitare la concessione della rete attualmente gestita, accettando: a) di pagare una penale; b) la modifica di alcune clausole (è di ieri la proposta del Ministero per la ridefinizione delle clausole di decadenza); c) l’accettazione del nuovo sistema tariffario; d) che i “Benetton”, i soli colpevoli nella narrazione mediatica, cedano il controllo della società a un soggetto a partecipazione statale (Cassa depositi e prestiti – Cdp) e a investitori istituzionali di gradimento di Cdp (e quindi del Governo).
Quello che nell’accordo notturno non è stato definito è il prezzo di questa cessione: “di mercato” per Atlantia, società quotata in borsa che deve tutelare l’interesse dei risparmiatori che in essa hanno investito; “punitivo” per il Governo che si deve allineare al volere grillino, probabilmente più per debolezza che per convinzione.
Il complesso dibattito circa lo scorporo di Aspi da Atlantia, che riguarda la sua dimensione (100%, 88% oppure 70%) e le sue modalità, ruota tutto intorno a questa domanda: quanto vale la società Autostrade per l’Italia e quindi quanto i nuovi soci dovranno pagare ai soci uscenti? Sembrerebbe una questione tecnica, che esperti internazionali di finanza dovrebbero saper risolvere abbastanza rapidamente. Invece non è così. Una società vale nella misura in cui sarà in grado di remunerare i capitali investiti e questo dipende dalle nuove regole che saranno definite nella concessione. Qui si inserisce un fatto anomalo e che rischia di gettare un ulteriore pesante discredito sul nostro Paese: l’Autorità per la regolazione dei trasporti ha definito un nuovo assetto tariffario condizionandone l’efficacia al perfezionamento dell’accordo tra Cassa depositi e prestiti e Atlantia. In questo modo, il regolatore cessa la propria funzione di arbitro imparziale e detta delle regole che non valgono per tutti, ma che dipendono dal giocatore.
Occorre quindi prima definire le nuove regole della concessione, che devono valere a prescindere da chi siano i soci del concessionario, e che devono permettere l’affidabilità finanziaria di Aspi, senza della quale non potrà accedere al credito e finanziare il piano straordinario di investimenti. Ovviamente questo permetterà di definire il valore della società e di portare a termine l’uscita dei Benetton; potrà permettere anche a Cassa depositi e prestiti di valutare su basi certe la convenienza di un’operazione che non ha cercato e che le è stata sostanzialmente imposta. A lato la magistratura dovrà continuare il proprio lavoro e definire responsabilità e pene.
In parole semplici, le difficoltà attuali sono il frutto avvelenato di un’impostazione “giustizialista” della questione, che ha sottratto alla magistratura il ruolo di accertare le responsabilità e di definire le pene, assegnandole al potere esecutivo: ministero dei Trasporti e presidenza del Consiglio. La richiesta da parte del Governo ad Atlantia di rinunciare a tutti i giudizi promossi in relazione alle attività di ricostruzione del ponte Morandi, al sistema tariffario, compresi i giudizi promossi avverso le delibere dell’Autorità di regolazione dei trasporti (Art) e i ricorsi per contestare la legittimità dell’art. 35 del decreto-legge “Milleproroghe” dicono quanto poco il Governo sia certo di avere agito nel rispetto delle leggi.
Apprestandoci a gestire i finanziamenti del Recovery Fund, uno spettacolo di questo genere, sotto gli occhi interessati delle maggiori piazze finanziarie internazionali, non è certo un buon viatico per il nostro Paese.