La Marvel Comics nasce nel 1961, con Stan Lee e Jack Kirby, con Fantastic Four e Spider Man, e per chi è cresciuto con quei fumetti è stato un crescendo di supereroi; nelle strip gli effetti speciali non servivano, perché On your imaginary forces work è sempre stato il grido di battaglia dei lettori dei comics. Per la casa editrice, tuttavia, i bassi furono tanti quanti gli alti, complice la concorrenza con la DC comics, l’arrivo dei manga, costi di produzione, le serie sbagliate e la vena creativa esaurita. L’acquisizione della Marvel Comics da parte del Re Mida dell’intrattenimento del 20esimo e 21esimo secolo, la Walt Disney, nel 2009, per 4 miliardi di dollari, dopo che il primo Spider Man, nel 2002, aveva incassato 800 milioni di dollari, ha portato alla creazione di quel mondo di cinecomic Marvel confluito in Avengers Infinity War e Avengers Endgame. Un successo al botteghino di incredibili proporzioni, degno del Re Mida. 



Il film è una divertente azione comica, legata soprattutto all’interazione di alcuni personaggi, quali Rocket, il procione che parla, Thor, con la pancia e dedito alla birra o Hulk, non più tormentato genio sopraffatto da un mostro brutale ma idolo che distribuisce autografi, ma con molte meno “botte da orbi” di quante ci si sarebbero potute aspettare in un film di rivincita. Inevitabile, visto che qui da sconfiggere c’è la morte di metà del mondo.



Thanos, il villain che schiocca le dita chiuse in un guanto ancora più magico della lampada di Aladino, era innamorato della Morte nei fumetti Marvel, la corteggiava regalandole mondi su mondi e, nella linea delle Origins Retold, nei due film che lo vedono “inarrestabile”, trasforma questo “amore di morte” in una “morte per amore” che lo convince della necessità di sterminare, nel primo film, metà della popolazione mondiale per permettere al mondo di riprendere a vivere e, nel secondo, di distruggere tutto il mondo, per poi ricreare un universo senza Avengers e quindi senza memoria e difesa di quanto perso.



Metà della popolazione mondiale in polvere, con il vento della dissoluzione che porta via pian piano una persona (e un supereroe) alla volta è quanto il mondo contemporaneo può accettare del memento mori; chi hai a fianco, oppure tu, non ci sarai più e tu, o lui, dovrà vedere questa fine. La chiusura di Avengers Infinity War con il giovanissimo Peter Parker, fra tanti altri, che si dissolve di fronte all’Iron Man che lo ha ingaggiato nella guerra contro Thanos e che si autoaccuserà in Avengers Endgame della morte del “ragazzo”, trova la sua controparte nell’incredulità di Peter Parker di fronte ad Iron Man bruciato dalla stessa lampada di Aladino, il guanto con le Gemme dell’Infinito, che Thanos ha usato per tentare, inutilmente, di dare un nuovo inizio al mondo, e che Iron Man usa per dissolvere l’armata di Thanos e poi, seduto e rassegnato, Thanos stesso. 

Il mondo non si salva perché tutta Wakanda torna guidata da Black Panther o perché ad un perduto Thor si sostituisce un nuovo padrone del martello, Captain America, e nemmeno perché torna dallo spazio la fiamma bruciante di Captain Marvel. Nell’immaginario Marvel tutte queste mirabolanti azioni sarebbero l’esito della convocazione di Avengers, assemble! che, almeno a pochi minuti dalla fine, non ha mai tradito la certezza dell’happy ending. Certo, in Avengers Infinity War i buoni hanno perso e la sconfitta è stata finale, ma si sapeva già che ci sarebbe stato Endgame, e che quindi una possibilità di riscatto ci sarebbe stata; ma in questo film che chiude la saga, dopo quasi tre ore, lo spettatore vede tutte le possibilità di vittoria svanire. Anche il viaggio nel tempo alla ricerca delle Gemme si è rivoltato contro gli Avengers che lo hanno ideato, e ha maturato nel Thanos del passato, che li ha raggiunti di nuovo in un mondo che era appena stato ricostruito, la scelta della distruzione totale. 

Iron man, ironicamente, mette come condizione per il suo rientro in squadra contro Thanos che quello che c’è ora, dopo cinque anni, non cambi. Tutti possono e devono essere “risuscitati”, ma io non devo perdere quello che ho vissuto, la mia bambina; lei non deve essere cancellata. Nel corso del viaggio temporale Iron Man si trova faccia a faccia col suo stesso padre che ha appena saputo che avrà un figlio; di nuovo ironicamente Iron man lo rassicura che tutto andrà bene. 

Per salvare il mondo basta la scelta di un uomo, che era già scampato alla morte in Avengers (2012) dopo che aveva spinto un missile dentro un tunnel spazio temporale e che lì si era scoperto non solo miliardario, genio, donnaiolo, ma eroe, e che sembra essere l’unico fra i tanti eroi della Marvel ad aver fatto buon uso dei cinque anni che intercorrono fra the end of the world as we know it e il viaggio nel tempo. Non fa lo psicanalista in erba di gruppi di depressi, non si rinchiude in una stanza coordinando sforzi inutili di rimettere le cose a posto, non stermina criminali; mette su famiglia e ha una bambina. In parole semplici, vive. Il film si conclude mostrando che l’altro leader naturale ed effettivo degli Avengers, Captain America, fa la stessa scelta di Iron Man; torna dalla sua Penny e invecchia.

Il succo della storia? Le occasioni nella vita di ripartire non sono determinate dal piano ideologico di un semidio invincibile, ma dal fatto che “noi siamo stati fortunati” (una battuta fra Iron Man e la moglie Pepper) e che la loro “fortuna” (essere “casualmente” sopravvissuti entrambi) se lo siano “meritata” avendo una figlia: qualcosa di più che effetti speciali e botte da orbi.