Se ci si chiede cosa sia o cosa debba “fare” un film, forse ci si pone sulla strada sbagliata nel commentare “Avengers: Endgame”. Perché il film, diretto dai fratelli Anthony e Joe Russo e soprattutto prodotto dal re dei Marvel Studios, Kevin Feige, più che alla singola opera guarda al suggello da porre a 11 anni e 22 film, a mettere un punto per permettere all’universo filmico della Marvel di poter ripartire: è in questo senso che il film può dirsi praticamente perfetto.
Si riparte pochi giorni dopo lo schiocco delle dita di Thanos che ha annientato metà della popolazione umana, con gli Avengers rimasti allo sbando, alla ricerca di una soluzione per poter rimediare alla loro sconfitta. Soluzione che sembrerebbe arrivare 5 anni dopo, grazie alla riapparizione dal mondo quantico di Ant-Man: ma è una soluzione praticamente impossibile da portare a termine.
Scritto da Christopher Markus e Stephen McFeely con una complessità di struttura e una sfacciataggine narrativa notevoli per un Blockbuster globale, “Avengers: Endgame” è una chiusura del cerchio praticamente perfetta, l’ultima puntata di una saga che riesce nel compito di portare a compimento un percorso cominciato nel 2008, fare la summa di quel percorso, delle sue strade e deviazioni, dei suoi significati narrativi, filmici e produttivi e allo stesso tempo di preparare il terreno per la fase 4 dell’universo Marvel, in arrivo già da luglio con il nuovo Spider Man.
E per chiudere questo cerchio, i Russo coerentemente riportano tutto a Tony Stark/Iron Man e Steve Rogers/Capitan America, coloro che avevano cominciato l’avventura (il primo film di Cap era sottotitolato “il primo Avenger”) dal 2008, per far loro lasciare più o meno simbolicamente lo scettro ai nuovi supereroi come i Guardiani della Galassia, Black Panther, Capitan Marvel. L’arma vincente del film è anche quella più complessa, ovvero il preciso e maniacale equilibrio tra le sue parti, i suoi registri, i personaggi e le loro linee narrative, tra le emozioni che devono suscitare: il classico cinecomic, il fantasy e la fantascienza, la risata e la commozione, lo spettacolo da usare senza esserne schiavi, l’azione e l’introspezione.
Persino le lungaggini inevitabili in film monstre come questo (durata: 182’) e che danneggiavano il precedente “Infinity War”, qui sono messe perfettamente a sistema, come nella parte centrale in cui si rivedono sequenze dei vecchi film (un vecchio stratagemma da serie tv d’altri tempi), ma che qui servono per riscriverle, rigirarle, reinterpretarle. Per sottolineare ancora una volta una filosofia corale che ha segnato l’evoluzione del filone dalla sua apparizione: Thanos perde la guerra, perché è a capo di un esercito che lotta per lui, gli Avengers vincono (ma è interessante l’iniziale riflessione di Stark: potevamo prevenire, siamo finiti a vendicarci), perché combattono tutti l’uno per l’altro, il loro leader cambia di volta in volta, di azione in azione, a seconda dell’occasione. Lo mostra perfettamente la sequenza del funerale, in cui la macchina da presa si muove lungo tutto il corteo funebre, dando a ogni singolo personaggio il suo momento di gloria e dolore, il suo primo piano, ricapitolando un universo e preparandolo per nuovi viaggi.
“Avengers: Endgame” è l’apoteosi di quello che potremmo definire artigianato digitale, un manufatto assemblato, costruito, curato nei minimi dettagli in virtù della sua funzionalità e della sua resa per il maggior numero possibile di spettatori, ma lavorato dando materia e calore alle immagini “numeriche” e intangibili, alle creazioni quasi astratte del cinema in computer grafica. Anche in questo, Endgame pone un punto di un cambiamento di paradigma nella storia del cinema e della sua industria, a partire dal lavoro sulla narrazione: ovvero la base per chiunque voglia riempire una sala.