Il processo per la morte di Ayrton Senna, avvenuta il 1° maggio 1994 a seguito delle ferite riportate in un incidente occorso alla curva Tamburello del circuito di Imola, durante il Gran Premio di San Marino, mentre correva con la Williams, non ha mai dato esito ad alcuna condanna. In Tribunale erano finiti il numero uno della scuderia Frank Williams e il progettista della vettura Adrian Newey con l’accusa di omicidio colposo. I tre gradi di giudizio, però, si sono tutti conclusi con l’assoluzione per entrambi. Per il responsabile del team, Patrick Head, riconosciuto colpevole di omicidio colposo, i giudici determinarono che non si dovesse procedere in virtù del fatto che il reato a lui ascritto si era estinto per prescrizione”.



In aula gli imputati dovettero discutere delle cause che avevano provocato il drammatico incidente. Le perizie infatti avevano evidenziato un cedimento del piantone dello sterzo, probabilmente derivante da una modifica effettuata prima della gara attraverso una saldatura manuale che non resse ai vari sforzi, impedendo al pilota di sterzare alla curva. È su questo che si è basata l’accusa, che però non è riuscita a individuale delle responsabilità giuridiche. 



Ayrton Senna, il processo agli esponenti della Williams dopo la morte: le motivazioni

Il processo per la morte di Ayrton Senna iniziò in aula il 20 febbraio 1997 davanti al pretore di Imola, Antonio Costanzo. Le prime due udienze riguardarono soltanto dettagli procedurali. La difesa presentò richiesta per il trasferimento del procedimento a Bologna, ma questa fu respinta. È il 5 marzo di quell’anno che viene ricostruita per la prima volta la vicenda. Il pilota aveva chiesto la modifica allo sterzo per motivi di guidabilità e il suo team la realizzarono in un modo che si sarebbe rivelato per nulla sicuro. Le immagini delle telecamere interne alla vettura (seppure incomplete) confermarono che non c’era stato alcun errore nella guida e che al momento dell’incidente il pilota era pienamente cosciente. La difesa della Williams però non ci sta e sostiene che la causa sia da ricondurre alla sicurezza del circuito e in particolare allo stato dell’asfalto. 



La sentenza diede pienamente ragione alla tesi della rottura del piantone dello sterzo, ma non bastò a una condanna. “I risultati ottenuti non consentono di affermare che l’ipotesi (della difesa) oltre che possibile sia anche verosimile, cioè in grado di spiegare in modo adeguato l’accadimento concreto. Un difetto di funzionamento del sistema di sterszo meglio si presta a spiegare un’uscita di pista in curva. I fattori ineriscono alla fase di ideazione e progettazione del pezzo”. Il fatto dunque sussiste, ma non furono riscontrate responsabilità.