“In guerra non può dispiacerti o piangere, altrimenti sei morto“. A parlare è Azad Cudi, il cecchino curdo che ucciso oltre 200 terroristi dell’Isis. Ha imparato a sparare in sole tre settimane, poi con quattro volontari ha difeso la città di Kobane dall’assedio dello Stato Islamico. Ora ha pubblicato le sue memorie e racconta la sua esperienza a El Mundo dal suo nascondiglio nel Nord Europa. Nell’intervista chiarisce di non conoscere il numero preciso delle sue vittime. “Non saprei dare una cifra. Nessun cecchino può farlo. A volte si spara e non si sa se lo si è ucciso o meno. Forse sopravvive due giorni dopo o è solo paralizzato. È impossibile conoscere il numero esatto di morti, e non è nemmeno una cosa a cui si pensa. È una visione occidentale dei cecchini. Forse erano 200 o 300. Non c’è modo di tenere il conto. Io di certo non l’ho fatto“. Non avrebbe mai immaginato di diventare uno spietato cecchino, ma non ha avuto scelta. “O si scappa o si reagisce. O si va dritti o si gira e si scappa. Sono andato avanti e ho difeso quello che pensavo di dover difendere: la nostra libertà“.
Tutto comincia nel 2002, quando a 18 anni presta servizio militare in Iran. Dopo l’addestramento, viene mandato a combattere contro i curdi al confine con la Turchia, ma si rifiuta di massacrare il suo popolo. Azad Cudi, quindi, diserta e scappa nel Regno Unito, dove lavora come fattorino. Ma è lì che entra in contatto con gli attivisti curdi. Dieci anni dopo è in Medio Oriente come assistente sociale, ma l’assedio dell’Isis lo costringe a riprendere le armi. Nel 2014, dopo 24 giorni di addestramento, impara a sparare con un fucile Dragunov e diventa uno dei 17 tiratori volontari improvvisati dell’esercito curdo per resistere all’invasione dei jihadisti.
“DIFFICILE VEDERE TERRORISTI ISIS COME PERSONE…”
L’unità di cui faceva parte Azad Cudi era formata da cinque cecchini. Solo loro hanno eliminato quasi 2mila terroristi dell’Isis, salvato il Kurdistan siriano e ribaltato le sorti di quella che sembrava un’avanzata inarrestabile da parte del Califfato. Non ricorda cosa ha provato quando ha ucciso per la prima volta. “Quando si finisce per sparare a un altro essere umano è uno shock. È uno shock. Non si sa cosa stia succedendo, si crolla emotivamente per il fatto di aver ucciso qualcuno“, racconta a El Mundo. Il cecchino curdo ricorda il volto della sua prima vittima, seppur non in maniera dettagliata. “In un certo senso, è più facile uccidere qualcuno da un tetto e dietro un obiettivo, perché non si sente il sangue, non si vede il suo colore rosso. Non è come accoltellarlo o strangolarlo. Non si vive la morte da vicino. Fa più freddo“. In ogni caso bisogna accettare l’idea di togliere una vita umana. “È difficile vedere queste persone come esseri umani. I membri dello Stato Islamico massacrano la gente su vasta scala, bruciano vive le persone, violentano le donne, gettano gli omosessuali dai tetti…. E tutto in nome della religione“. Questa consapevolezza, dunque, lo ha aiutato. “Mi era chiaro che avrei preferito ucciderli piuttosto che far sì che uccidessero me e la mia gente e si impadronissero della mia terra. È una questione di dignità e di rispetto. Ma questo è facile da dire; in pratica è molto difficile“. Inizialmente è dura, poi uccidere terroristi è diventato normale. “È un processo emotivamente difficile, ma si presume che non ci sia scelta. Non si può parlare con loro, non si può negoziare nulla. Si tratta di persone che sono disposte a morire perché sono convinte di andare in paradiso. A volte mi sentivo persino in colpa pensando che stavo facendo loro il piacere di mandarli in quel paradiso, quando invece volevo solo dir loro: Spero che finiate all’inferno“.
“GUERRA DIVORA MOLTI SENTIMENTI MA…”
Azad Cudi afferma di non credere in Dio, anche se ha un background musulmano. “Credo nella storia, nella filosofia, nell’ideologia, nella psicologia, nel femminismo, nella democrazia…“. Otto anni fa il cecchino curdo fu costretto ad uccidere un adolescente a Kobane per far fuori un jihadista che era con lui. “È stato uno dei momenti più difficili (..) Ho iniziato a tremare. E all’improvviso tutto si è dissolto nel mio sistema. La mia attenzione, la mia concentrazione. Non esisteva più nulla. Tutto è crollato“. Quando si è in guerra, quando si combatte, bisogna avere una mentalità meccanica, fare quel che si deve. “Non puoi dispiacerti o piangere o finirai per morire, ma quella volta non ci sono riuscito. Sapevo che l’ISIS usava i bambini in guerra, ma non mi sarei mai aspettato di incontrare una cosa del genere faccia a faccia“. Ad accompagnarlo la consapevolezza di poter morire in combattimento. “Quando sono entrato in guerra sapevo che c’era la possibilità di morire, ma l’ho accettato e non ci ho più pensato. È vero che ho salutato più volte la morte da vicino, gli ho anche stretto la mano, ma era quello che mi aspettavo“. La paura, invece, si può superare: “Si supera solo concentrandosi sul proprio scopo e accettando lentamente ciò che ci circonda. Quando si parte dal presupposto che nulla è giusto intorno a noi, si smette di avere paura“. Tutto questo vissuto lo ha reso una persona migliore: “Apprezzo molto di più la vita, capisco meglio la mia famiglia, i miei amici… La guerra divora molti sentimenti, ma ora capisco meglio l’idea di libertà, dignità, coraggio“. Nell’aprile del 2016 è tornato nel Regno Unito e si è tolto l’uniforme. “Smettere di avere una pistola al mio fianco è stato come rinascere“. Ma ad aiutarlo è anche la terapia, anche perché a volte i ricordi tornano. Ma non si pente della sua scelta: “Certo che ne è valsa la pena. Per la dignità, la libertà, il rispetto e l’orgoglio. Vale sempre la pena di lottare per ciò in cui si crede. Ci tornerei domani“.