Quando tutto intorno si fa buio, abbiamo bisogno di luce. A volte basta una fiammella per continuare a sperare, per essere certi che il buio non è l’ultima e definitiva parola sulla nostra vita e sul mondo. E può accadere che la fiammella si accenda dove meno te l’aspetti, in luoghi e circostanze che sembrerebbero i meno favorevoli. Eppure accade. È la sensazione che si ricava conoscendo la storia di cinque donne – fragili e intrepide – che sono andate a vivere in un posto sconosciuto perfino a Google maps e divenuto un punto di luce: è il monastero “Maria Fons Pacis” di Azer, in Siria, non lontano dal confine con il Libano, in una zona abitata da musulmani sunniti e alawiti e da un pugno di cristiani. Nel 2005 arrivarono in quattro – tutte italiane – dal monastero trappista di Valserena (Pisa) per raccogliere l’eredità dei confratelli di Tibhirine, rapiti e uccisi nel 1996 in Algeria, e per tenere vivo il carisma cistercense in terra araba.



Nel 2017 le ha raggiunte una quinta consorella, angolana, da poche settimane se ne sono aggiunte altre due provenienti dall’Ecuador. La costruzione del complesso monastico, avviata nel 2008, dovrebbe concludersi definitivamente alla fine di quest’anno, ma il luogo è diventato da tempo un’oasi di pace e di bellezza in un Paese martoriato. La mostra multimediale Azer, l’impronta di Dio – inaugurata nell’agosto scorso al Meeting di Rimini e visitabile in questi giorni a Milano fino al 28 gennaio dalle 11 alle 19 presso il monastero San Benedetto di via Bellotti 10 – ne racconta la storia e mette in evidenza il valore profetico di questa presenza, soprattutto in questo tempo in cui la violenza e la contrapposizione sembrano dettare legge in Medio Oriente.



Tempi difficili e bui, questi, per la Siria: la guerra che dal 2011 ha causato più di 500mila morti, enormi devastazioni e l’esodo di milioni di persone, il Covid arrivato nel 2020, nel 2022 un’epidemia di colera, l’anno scorso il terremoto. La maggior parte dei cristiani – una componente significativa nel mosaico di popoli e culture che abita la Siria – è emigrata, l’incidenza è scesa dal 10 all’1,5 per cento della popolazione. C’era più di un motivo per andarsene, ma le monache non sono mai venute meno alla loro vocazione di presenza orante e operosa, testimoniando il Vangelo e tessendo legami di amicizia con la gente del posto. Con l’aiuto delle maestranze locali e il sostegno di amici italiani, le suore hanno continuato a costruire il monastero, trasformando una collina incolta in un piccolo paradiso fiorito e coltivato.



Grazie a una donazione di Banco Building – un’opera che intermedia donazioni di beni strumentali, dall’industria al mondo del non profit – è arrivata una fornitura di 4mila metri quadrati di pannelli solari che assicurano energia elettrica per le necessità del monastero e dei villaggi vicini. La gente del posto le chiama “le nostre suore”, le donne chiedono una benedizione per i loro figli, molti abitanti del luogo hanno trovato lavoro nel cantiere del convento, che dovrebbe concludersi entro l’anno prossimo. “Apparteniamo a questa terra, a questa gente e a questa storia – racconta la superiora, suor Marta Luisa Fagnani, nativa di Como -. Per noi è una vocazione nella vocazione. Siamo qui per testimoniare l’amicizia di Cristo e ci sentiamo eredi della millenaria tradizione monastica che proprio in Siria ha mosso i primi passi. Quando tutto sembra crollare, si deve restare attaccati all’essenziale. Per mantenere viva la speranza è fondamentale offrire uno spazio d’incontro dell’uomo con Dio che diventi per tutti un segno”.

Stare, pregare, incontrare: sta in questi tre verbi il segreto di un’esperienza che ha rivoluzionato l’approccio al lavoro di Alberto Mazzucchelli, il progettista che era stato segnalato alle suore da Avsi e che sta portando a compimento l’impresa. “L’incontro con Marta e le sue sorelle ha comportato per me una rivoluzione dello sguardo: il monastero cistercense vive tutto del rapporto tra la pietra e la luce, mettendomi in ascolto delle monache mi sono accorto che non ero più io a progettare il monastero, era il monastero che stava progettando me. La storia del progetto è diventata la storia dell’amicizia tra noi, le suore, i donatori, le maestranze. E nel tempo è cresciuta la consapevolezza che i muri che venivano edificati non sono un modo per difendersi dal mondo ma delimitano un perimetro dove accade l’incontro con il Mistero, perché tutto il mondo vi possa partecipare”.

La croce di fondazione piantata nel 2008 sulla collina di Azer è il segno di ciò che anima le sette sorelle trappiste: l’offerta alla gente di ciò che hanno di più prezioso, una fede ricevuta e donata che diventa profezia di pace per la Siria e per tutto il Medio Oriente. Sembra poco, ma forse è ciò che conta di più, come ha scritto pochi giorni fa il cardinale Pizzaballa rievocando il viaggio di Francesco in Terrasanta nel 1219, che “non ha risolto alcuno dei problemi politici del tempo ma ha indicato un metodo, che ancora oggi è la via maestra per chi vuole costruire contesti di pace: l’incontro. Promuovere, ricercare, costruire, custodire il desiderio di incontro. In fondo, vuol dire vivere seriamente il Vangelo, e assumerlo come criterio fondamentale per le scelte di vita. Sono sempre più convinto che in questo contesto così complesso la vocazione e la missione principale della piccola comunità cristiana che da secoli la abita sia custodire il desiderio di incontro, coltivare la libertà nei confronti di tutti, superare i confini etnici, religiosi e identitari che, pur non scritti, sono tuttavia rigidissimamente scritti nella coscienza di queste popolazioni. Proprio come fece Francesco d’Assisi. Non si tratta di cancellare le proprie appartenenze, che sono comunque necessarie. Ma di non renderle solamente delle fortezze inespugnabili, baluardi inaccessibili, presidi da difendere”. Per renderle invece una fiammella che nega al buio l’ultima parola.

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