Un fenomeno crescente quello delle “baby gang”, gruppi di minorenni autori di gesti criminali e di violenza, e anche di vere e proprie guerre tra bande. Tra i casi più recenti quello che ha portato all’arresto di quattro ragazzi di origine egiziana, all’epoca dei fatti minorenni, che assaltavano automobili dove si trovavano prostitute con i loro clienti, sfasciavano le macchine e picchiavano gli adulti, dando come unica motivazione “odiamo gli italiani”.
Nell’area che ospita i centri commerciali tra Unipol Arena e Palasport di Casalecchio, a Bologna, una decina di minorenni è stata identificata dopo che i clienti avevano denunciato scontri continui fra bande nei weekend. Infine a Milano una vera faida tra due trapper e i loro seguaci, coinvolti anche in una violenta sparatoria in cui erano stati gambizzate due persone provenienti dal Ghana.
Secondo don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile di Milano Beccaria e fondatore della comunità di accoglienza Kayròs, “il fenomeno coinvolge anche ragazzi italiani, spesso di buona famiglia, con genitori molto protettivi che permettono loro tutto e di conseguenza cresciuti con fragilità evidenti e incapacità ad affrontare la realtà e le fatiche quotidiane”.
Come cappellano di un carcere minorile ha sicuramente avuto a che fare con membri di queste baby gang, che si dice siano in gran parte composte da ragazzi stranieri di seconda o terza generazione. E’ così?
Proprio in questi giorni è uscita una indagine su questo fenomeno condotta dall’Università Cattolica insieme al Dipartimento giustizia minorile. I dati parlano di un fenomeno trasversale che riguarda ragazzi di seconda e terza generazione, ma anche ragazzi italiani. Al Beccaria e nella mia comunità ne ho incontrati parecchi.
Cosa c’è alla base di questi loro comportamenti?
Il disagio, anche se motivato da logiche diverse, ha come tratto comune la fragilità e soprattutto la sfiducia verso il mondo adulto e verso le istituzioni. Chiaramente le motivazioni sono diverse a seconda dei singoli casi. C’è chi lamenta un vuoto e una assenza totale dello Stato nei loro quartieri e nelle loro case popolari. Si costituiscono come una società tra pari, dove l’adulto è annullato perché di fatto non c’è mai stato. Si fanno giustizia da sé, fanno tutto in autarchia. Ci sono poi i minori stranieri non accompagnati che hanno una forte esposizione al crimine, ragazzi che non trovano collocazione nelle poche comunità, perché non ci sono abbastanza posti per accoglierli. Solo a Milano ne abbiamo mille che vivono per le strade e sono più esposti a commettere crimini per soldi. Infine ci sono gli italiani che emulano i comportamenti dai social e cercano di farsi rispettare in una logica tribale.
Molti dei ragazzi italiani sono anche di buona famiglia, vero? Si può dire che con questi legami cercano di far fronte a una sorta di noia esistenziale?
Sono ragazzi che spesso sono eccessivamente protetti dalle famiglie. Questa cura eccessiva porta a ragazzi insicuri e fragili, che davanti alle difficoltà non hanno la capacità di affrontare i fallimenti o le fatiche. Sono abituati a ottenere tutto dai genitori e di fronte a un brutto voto scolastico soccombono e precipitano in queste condotte che sono deresponsabilizzanti: si va dietro al branco per coprire la propria inconsistenza.
Branchi dove per entrarne a far parte si deve dimostrare di essere un duro?
Sì. C’è un aspetto purtroppo non tenuto in debito conto, il consumo di sostanze stupefacenti e di alcol. Stiamo assistendo a un ritorno molto pericoloso al consumo di alcol. Molti crimini adolescenziali sono legati al consumo di droghe euforizzanti come la cocaina e questo è un problema che bisogna affrontare.
Come ci si può approcciare nel modo giusto a questi ragazzi che hanno deciso di auto-escludersi dal mondo?
Bisogna andare dove sono, avere il coraggio di entrare nei loro quartieri, di entrare nei loro linguaggi, accoglierli nella loro diversità. Non ci sono grandi strategie, se non l’ascolto attento. E bisogna sollecitare le istituzioni affinché diano loro un tessuto sociale dignitoso in cui vivere.
(Paolo Vites)
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