Metti una sera d’estate in centro città. Passeggiata, gelato, quattro chiacchiere in compagnia. E la rissa. Le ore piccole del mese d’agosto sono ancora cariche di tepore e di luce, ma sono anche lunghe, troppo lunghe. Noiose, oziose. E l’ozio, si sa, è il padre dei vizi. O almeno lo sapevano i nostri genitori, i nostri nonni che non avevano avuto tempo di oziare né al lavoro né, tantomeno, a scuola quando la scuola era una cosa seria. Nella società del “tutto e subito”, di quel proverbio s’è persa la traccia e così, sempre più spesso, le gangs dei decenni passati, composte da giovani e meno giovani, ma sempre di maggiore età, hanno lasciato il posto a bande di minorenni di cui è ormai piena la cronaca.
Metti un sera dell’estate scorsa in centro a Gallarate, poco più di 50mila abitanti a metà strada fra l’opulenta Milano e la sonnacchiosa Varese. In quattro circondano un coetaneo e, senza alcun motivo, lo spintonano, schiaffeggiano, prendono a calci. Riaccade il giorno appresso e poi ancora nei giorni seguenti. Anche in pieno giorno e sempre seguendo un impulso che non ha ragioni se non istintive, dettato solo dalla voglia di far male per impossessarsi di una catenina, un cellulare, un monopattino. Sotto lo sguardo attonito dei passanti, senza alcun timore di venire riconosciuti e denunciati. A casa completano l’opera: sui social prendono in giro le forze dell’ordine e mettono in bella mostra il frutto delle loro rapine.
Qualche giorno fa, finalmente, gli arresti. In quattro (ma altri se ne dovrebbero aggiungere nelle prossime ore) sono finiti in una comunità e a disposizione del Tribunale dei minori. Hanno fra 14 e 15 anni. Poco più che bambini, ma solo per l’anagrafe. Maneggiano coltelli, menano pugni, usano linguaggi da criminali patentati.
Il padre di uno di loro ha dichiarato agli investigatori di “non sapere più gestire” il figlio (altri, scommettiamo, sono pronti a difendere le imprese dei loro pargoli come “ragazzate”).
Non si tratta di un’ammissione nuova. Chi insegna ricorda di averla udita più volte da genitori convocati per i cattivi comportamenti dei loro ragazzi. “Non so cosa fare” è diventata una sorta di scusante, come dire “pensateci voi, io non riesco”. Famiglie allo sfascio, padri violenti, madri succubi? Mica sempre. Il cliché è divenuto logoro. Sempre più spesso si tratta, invece, di famiglie “normali”, genitori che lavorano, entrate economiche discrete. E totale incapacità di generare davvero.
Si va perdendo, ecco, la capacità di sostenere una vita al di là del puro e semplice fatto di averla messa al mondo. E i giovani, i giovanissimi, persino i bambini lo avvertono subito. La società parla sempre e soltanto di diritti – al gioco, allo studio, al calore di una famiglia, tutti sacrosanti – e mai di doveri. A scuola non è l’ora solitaria settimanale dedicata alla cittadinanza a responsabilizzare gli alunni, con quella sottolineatura delle “regole” che poi vengono sistematicamente violate dalla scuola stessa (“studia che ti fa bene, ma se non lo fai ti promuoviamo lo stesso”). A casa non è il cedimento ad ogni desiderio materiale che gli riempie di significato la vita. In parrocchia – per i pochi che ancora la frequentano – non è l’oratorio trasformato in sala giochi o la ripetitività stantìa delle celebrazioni a motivare chi li frequenta.
E allora? Allora i genitori devono tornare a generare, cioè a far crescere come farebbero con qualsiasi pianticella messa a dimora del loro giardino: le si affianca un bastone che fa da tutore, cioè le impedisce di crescere storta. Gli insegnanti devono tornare a in-segnare, cioè a lasciare un segno positivo sui loro allievi, invece che limitarsi a “fare lezione”. Difficile?
Difficilissimo, per gli uni e per gli altri. Perché dire “no” è più impegnativo che dire “sì”. Ma se non torniamo a farlo, saremo presto travolti da una pandemia diseducativa di gran lunga peggiore di quella del Covid.
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