Baby Gang, alias Zaccaria, è uno dei rapper più promettenti della scena musicale italiana. Eppure, a nemmeno 20 anni, l’artista ha trascorso una buona parte della vita facendo dentro e fuori da carceri minorili e comunità, alle prese con criminalità e droghe, tanto che ha cominciato a pubblicare musica quando ancora si trovava detenuto nel carcere “Beccaria” di Milano. A raccontare la sua storia è stato lui stesso in una video intervista di “Noisey Italia”, pubblicata sull’omonimo canale YouTube.



“A 11 anni volevo essere indipendente, perché a casa portavo sempre denunce e problemi – ha asserito il ragazzo –. Abitiamo in un monolocale, mi sentivo un peso a livello economico, in quanto abbiamo avuto tante difficoltà. Così una sera sono uscito di casa e ho preso l’ultimo treno. Mi sono trovato in stazione da solo con il mio zainetto, due canne, le merendine e ho dormito nel vagone. Sono stato in giro per due anni, poi si sono aggiunti altri amici, sembrava una gang. Rubavamo al supermercato, mangiavamo assieme, ce la cavavamo uniti”.



BABY GANG: “IN CARCERE IMPARI SOLO A DELINQUERE”

Per Baby Gang, tuttavia, i primi problemi con la legge non hanno tardato a manifestarsi, complice la vita sregolata condotta in gioventù: “A 12 anni, mentendo, sono andato a Torino con gli amici e in un negozio di vestiti abbiamo riempito un sacco di borse – ha raccontato –. Mentre stavamo uscendo, però, un poliziotto mi ha fermato. Ci hanno portato in comunità, ci sono rimasto due settimane e poi sono scappato. Dal 2012 ad oggi, ho passato ogni estate in galera o in comunità. Per esperienza, però, vi dico che la galera non serve a nulla: entri per una rapina, esci che sai pure spacciare. Entri per lo spaccio, esci che sai anche truffare. Da altri criminali puoi imparare soltanto a delinquere”. La comunità, però, ha iniziato a restituirgli fiducia. “Devo dire grazie a don Claudio Burgio, che mi ha fatto uscire dal Beccaria per andare nella sua comunità. Ha creduto in me fin dal giorno zero, mi faceva andare in studio di registrazione anche quando gli assistenti sociali non erano d’accordo. Lui guardava la persona, non la fedina penale”.