Non essendoci novità di rilievo in materia di pensioni, non ci sembra il caso di osservare dal buco della serratura se in qualche tavolo tecnico si sono fatti passi in avanti (che sarebbero poi all’indietro) per quanto riguarda la c.d. separazione tra assistenza e previdenza o l’agognata flessibilità in uscita (che poi sarebbe soltanto un modo di anticipare l’età effettiva di pensionamento alla decorrenza).



Può essere utile e interessante, mentre attendiamo in sala d’aspetto, soffermarsi su qualche vicenda del passato (che ovviamente continua a produrre effetti anche nel presente dopo vari decenni). È il caso delle c.d. baby pensioni: una sorta di peccato originale sul quale nessuno esita a parlare di scandalo.

La questione viene ripresa tra i tanti altri argomenti di cui è ricco, nel saggio edito da Solferino “Il lavoro di oggi, la pensione di domani. Perché il futuro del Paese passa dall’Inps” che raccoglie una lunga e approfondita conversazione tra il Presidente dell’Istituto, Pasquale Tridico e il giornalista del Corriere della Sera Enrico Marro con riguardo ai maggiori temi in discussione a proposito di welfare (dalle pensioni al salario minimo e al Reddito di cittadinanza). Marro ripercorre gli aspetti politici e normativi del caso. Erano gli anni del centrosinistra e, nel 1973, poco prima della grande crisi petrolifera, quando ancora ci si cullava nell’illusione di una crescita senza fine, una classe politica miope arrivò al punto (Governo Rumor, con Dc, Psi, Psdi e Pri) di concedere alle dipendenti pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno; ai dipendenti pubblici uomini, dopo 19 anni sei mesi e un giorno. Come definire la pensione ai trentenni, se non un regalo?



Elisabetta Rosaspina e Gian Antonio Stella, sul Corriere della Sera, nel 1994 e nel 1997 raccontarono i casi delle signore Ermanna Cossio e Francesca Zarcone, che erano riuscite ad andare in pensione, rispettivamente, a 29 e a 32 anni, dopo aver lavorato come bidelle, con assegni quasi pari alla retribuzione. Insomma, mentre oggi non sono pochi quelli che a 30-35 anni non hanno ancora trovato un lavoro, fino al 1992 (riforma Amato), c’erano giovani che a questa stessa età andavano in pensione. Un errore di cui ancora paghiamo il prezzo.

In realtà – aggiungiamo noi – la cosa è un po’ più complicata. Nel pubblico impiego era consentito fin dall’inizio il pensionamento dopo 20 anni di servizio per gli statali e 25 per i dipendenti degli enti locali. Peraltro l’opzione era favorita dai rendimenti previsti e dalla norma (poi modificata) che prevedeva l’integrale erogazione dell’indennità integrativa speciale (la rivalutazione automatica al costo della vita come se il soggetto fosse andato in quiescenza con il massimo di anzianità). Insomma, era veramente conveniente andare in pensione anche sul piano economico, perché non vi era molta differenza tra l’importo dello stipendio e quello della pensione. Il caso dei 14 anni 6 mesi e 1 giorno per le donne sposate con figli si verificò nei termini descritti da Marro. Tridico, nel saggio, illustra le conseguenze di quelle misure che dispiegano ancora i loro effetti dopo 50 anni (si veda la tabella).



Fonte- Inps

«Nel complesso – spiega Tridico – i lavoratori che hanno beneficiato delle cosiddette baby pensioni sono stati circa 256mila. Quelle ancora vigenti sono circa 185mila, di cui 149mila pagate a donne. La spesa annuale è di circa 2,9 miliardi di euro. L’età media alla decorrenza della pensione degli attuali beneficiari era di circa 42 anni per le donne e 45 anni per gli uomini. In media, un baby pensionato sta prendendo l’assegno da 36 anni se donna, da 35 anni se uomo. Quelli deceduti, in vita hanno goduto dell’assegno in media per 28 anni: 29 anni le donne, 26 gli uomini. Gli anni di contribuzione medi sono stati circa 22 per le donne e 25 per gli uomini».

A questo punto – domanda Marro – si può calcolare quanto ci sono costate le pensioni baby. «Il solo valore attuale dei pagamenti delle pensioni vigenti, moltiplicato per il numero di anni di godimento, porta a un valore di circa 102 miliardi di euro. A queste vanno ovviamente aggiunte, per il loro periodo di godimento, le pensioni eliminate e arriviamo ad una cifra totale di 130 miliardi».

Enrico Marro – che da tanti anni si occupa di lavoro e previdenza – coglie un punto critico. Nessun Governo – anche di quelli che hanno contribuito a superare questa operazione pre-populista (oggi i trattamenti del pubblico impiego sono uniformi a quelli dei lavoratori privati) – si è mai posto il problema di chiedere, in tanti anni, com’è stato disposto in molti casi per altre tipologie di pensioni, un contributo di solidarietà a questi privilegiati ex lege. Risponde il Presidente dell’Inps: «La media dei ratei mensili delle cosiddette baby pensioni non è così alta: 1.152 euro per le donne e 1.335 euro per gli uomini, per una media di 1.187 euro. Quindi sarebbe difficile chiedere un contributo di solidarietà. Certo, queste persone finiranno per prendere cumulativamente un montante pensionistico in media più alto, a parità di rateo mensile, rispetto a coloro che vanno in pensione in età ordinaria. Ma non penso questo giustifichi, oggi, davanti alla Corte costituzionale, un taglio di queste pensioni, soprattutto se queste persone sono andate in pensione sulla base di leggi approvate dal Parlamento e mai cambiate fino al 1992».

In realtà, contributi di solidarietà – anche di un certo rilievo economico – sono stati chiesti più volte alle pensioni di importo medio-alto. In verità – ricordiamo – la Consulta – ogni qualvolta sia stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un contributo di solidarietà – ha chiesto che fossero rispettati i criteri della ragionevolezza, dell’equità della straordinarietà e temporaneità, attribuendo a ogni sentenza un carattere ultimativo, salvo poi lasciar correre la volta successiva.

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