A Roma, il balletto ferve nel periodo natalizio. Almeno tre teatri sono impegnati con danza classica. E’ anche una tradizione del Teatro dell’Opera di Roma. L’anno scorso – si ricorderà- era di scena il consueto Schiaccianoci di Pëtr Il’ič Čajkovskij. Questa stagione è stato proposto scelto un titolo apparso spesso nelle ultime stagioni, Don Chisciotte di Ludwig Minkus, ma con un allestimento in gran misura nuovo grazie alle belle scene e degli eleganti costumi di Francesco Zito ed Antonella Conte. Incantevoli. Ci portano in mondo di fiaba con colori sgargianti e bei giochi di luci di Vinicio Cheli. Lo spettacolo si replica quasi ogni giorno sino al 31 dicembre (quando l’inizio è alle18, per consentire al pubblico di partecipare a cene e veglioni di Capo d’Anno dopo una serata al Teatro dell’Opera).



Don Chisciotte ha una storia particolare. Appartiene al genere tardo romantico (la prima è del 1870, ma la versione corrente risale al 1871). Lo ideò Marius Petita, che allora faceva il bello e il cattivo tempo in materia di danza nei Teatri Imperiali della Russia zarista. Petita lo coreografò con Alexander Gorgsky. La musica venne commissionata a Minkus, il quale nato in quella che ora è la Repubblica Ceca ma allora era parte dell’Impero austro-ungarico, giunse da bambino a Vienna e diventò uno dei musicisti di corte a San Pietroburgo dal 1869 al 1891 quando rientrò a Vienna, dove, ormai anziano, ebbe scarsa fortuna professionale e morì in povertà perché il governo rivoluzionario sovietico gli tolse la pensione. I suoi balletti, numerosi, sono sempre stati in repertorio nell’Urss ed ora nella Federazione Russa, ma non arrivarono in Occidente che quando nel 1961, all’aeroporto parigino di Le Bouget, Rudolf Nureyev chiese asilo politico. Tuttavia, il gran pas de deux del terzo atto era noto perché George Balanchine, nato a San Pietroburgo ma scappato in Occidente giovane, lo aveva incluso nel repertorio del New York City Ballet. Da allora, ebbe grande successo.



Oggi Don Chisciotte è, con La Bayadère, è uno dei due balletti di Minkus più rappresentati. È nel repertorio del Royal Ballet e del Teatro alla Scala nella versione aggiornata da Nureyev e dell’American Ballet Theatre in quella curata da Mickail Barishnikov. Recentemente, Alexey Ratmansky, uno dei coreografi più apprezzati della giovane generazione, ne ha approntato un’edizione modernissima per lo Het National Ballet di Amsterdam. Quindi anche se Minkus resta un compositore eclettico e considerato un mestierante, si tratta di roba fine. Don Chisciotte, in particolare, può competere con i tre grandi balletti di Čajkovskij.



Il Don Chisciotte proposto dal Teatro dell’Opera di Roma è molto differente da quelli del recente passato, basati sulla coreografia di Gorgsky. La coreografia è di Laurent Hilaire che a sua volta si basa su quella di Mikhail Baryshnikov per l’American Ballet Theatre. È molto dinamica ed atletica.

Il libretto del balletto ha poco a che vedere con lo spirito del romanzo di Cervantes. Non manca la battaglia contro i mulini a vento, ma l’intreccio (la contrastata storia d’amore dei giovani Kitri e di Basilio, intrecciata alle rocambolesche avventure di Don Chisciotte e del suo scudiero, Sancho Panza) è essenzialmente un pretesto per giustapporre musica spagnoleggiante (nacchere, bolero) con musica neoclassica e ricordi di Vienna. Ed è divertente non melanconico come altri lavori ispirati a Cervantes (tra tutti l’opera di Massenet).

Si alternano tre cast. In quello della sera della prima, il 18 dicembre, molto buoni i due protagonisti, Isabella Boylston (nel ruolo di Kitri) e Daniel Camargo (in quello di Basilio). Tutti di grande livello i personaggi minori e soprattutto il corpo di ballo (specialmente nei quadri del “sogno di Don Chisciotte e della festa di nozze nel villaggio), in gran misura grazie al rinnovamento apportato in questi anni da Eleonora Abbagnato.

Perché non trasformare il ballo dell’Opera di Roma, che ha ormai superato in qualità quello della Scala, in una formazione nazionale come il Royal Ballet britannico e l’American Ballet degli Stati Uniti? E dargli anche il compito di mostrare l’eccellenza della danza in altre città?

Un ultimo punto per chi si interessa alla partitura più che alla parte coreutica, è importante sottolineare che il direttore d’orchestra David Garforth esegue la edizione critica da lui predisposta circa sette anni fa per eliminare tutte le aggiunte e modifiche aggiunte nelle prassi esecutive di quasi cento quaranta anni. Si raccomanda soprattutto l’intermezzo.

Quindici minuti di applausi ed ovazioni in un teatro esaurito.

Buon Natale a tutti i lettori.