Il copione sembrava scritto da tempo. E l’epilogo non poteva essere diverso da quello appena andato in scena, un finale che in realtà maschera una vittoria politica per la premier, che in un colpo solo incassa la motivazione più super partes che si poteva immaginare (quella arrivata dal presidente Mattarella) per scontentare i recalcitranti compagni di maggioranza e una fetta di base elettorale.
La questione è quella “dei balneari” e del decretone-contenitore (molto made in Italy) chiamato Milleproroghe, che all’origine era composto da 24 articoli per 149 commi, ed invece è stato licenziato, dopo il passaggio alle Camere, con 45 articoli per 354 commi, non tutti proprio rispondenti alla “finalità unitaria di intervenire in materia di regolazione sul piano temporale di termini legislativi”.
Occorre fare un passo indietro.
Lo stato dell’arte
L’Italia vanta più di 8mila chilometri di coste, per circa 19 milioni di metri quadrati di spiagge, sulle quali insistono 103.620 concessioni, per 6.318 stabilimenti balneari, meno di un’impresa per chilometro di costa. Mentre 4 stabilimenti su 10 pagano meno di mille euro all’anno di concessione, e secondo la Corte dei Conti lo Stato negli ultimi anni ha incassato in media poco più di 100 milioni a fronte di un giro d’affari stimato sui 15 miliardi.
Per inquadrare le regole adottate dall’Italia in materia bisogna risalire al Codice della navigazione del 1942, riferimento fino ad oggi, con qualche variazione e aggiunta, come il “diritto di insistenza” introdotto nel ’92, che ha stabilito il rinnovo automatico delle concessioni ogni sei anni, o come la regola che i soggetti già titolari di concessioni siano preferibili a nuovi pretendenti. E sono proprio questi i due punti maggiormente contestati dall’Ue, ai quali si aggiungono altri problemi derivati, come i canoni ridicoli, le subconcessioni, la progressiva scomparsa delle spiagge libere.
La direttiva Bolkestein
Nel 2006 l’Europa varò la direttiva Bolkestein (dal nome dell’allora eurocommissario al Mercato interno): il rilascio di nuove concessioni e il rinnovo di quelle in scadenza dovevano “seguire procedure pubbliche, trasparenti e imparziali che consentano a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario”. Così il principio di insistenza e il rinnovo automatico furono abrogati, ma per finta: in realtà entrarono in vigore solo le proroghe, prima fino al 2015, poi al 2020, anche queste contestate dall’Ue, e dopo ancora fino al 2034.
Così l’anno scorso il Consiglio di Stato intervenne, ribadendo lo stop ai rinnovi automatici e fissando la scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2023. Il governo Draghi, recependo la sentenza del capo dello Stato e le direttive europee, aveva stabilito che entro il 31 dicembre 2023 tutte le attuali concessioni demaniali riguardanti spiagge e litorali (circa 30mila, ma nonostante tutto un numero preciso ancora non c’è) dovessero essere azzerate e riaggiudicate secondo gara già dal primo gennaio 2024. Era stabilito l’impegno a presentare entro 6 mesi la riforma di tutte le concessioni balneari, con la revisione dei canoni annui in base al pregio delle spiagge.
Il contenzioso
Proprio il riferimento al solo “pregio delle spiagge” aveva scatenato l’opposizione dei balneari (soprattutto quelli più strutturati) che hanno investito nelle concessioni e si sarebbero sentiti “sperequati da un regime indiscriminatamente concorrenziale”. E anche se i metodi di compensazione avrebbero potuto garantire un equo risarcimento, ugualmente gli operatori sostenevano ostinatamente (assecondati dalla retorica della campagna elettorale del centrodestra) che avrebbero potuto trovarsi in spiacevoli condizioni di competizioni asimmetriche: “Il valore aziendale non è un privilegio, ma il giusto riconoscimento che merita chi ha fatto investimenti e deve essere tutelato anche con indennizzi, come avviene peraltro per altre attività economiche”. Così si sono chieste nuove proroghe, un censimento capillare per il quale nessuno sembra avere fretta, un fantasioso riordino complessivo di tutta la materia.
La politica
Il governo Draghi lasciò bruscamente il passo ad una campagna elettorale ristretta e concentrata su poche contrapposizioni. Uno dei leitmotiv del centrodestra, di tutto il centrodestra, fu proprio la questione “balneari”, un bacino di voti consistente (tra attori diretti e indiretti), che per di più rispondeva anche alla filosofia di lasciare mani libere all’impresa. A dispetto dell’Europa, incuranti della quasi certa procedura d’infrazione, dei miliardi del Pnrr che sarebbero finiti a rischio (ovvio che all’Ue non piaccia finanziare uno Stato in difetto legislativo), dell’altrettanto certo contenzioso giuridico complesso ed infinito che si sarebbe aperto con il Consiglio di Stato, FdI, FI e Lega promisero le barricate a difesa dei concessionari balneari. Una volta al governo, tra evidenti imbarazzi, il centrodestra non ha inteso ingranare nessuna retromarcia, anche se la premier, consapevole della situazione insostenibile e nient’affatto propensa ad aprire un nuovo fronte con l’Ue, sembrava pronta alla sottomissione. Ma perché proporla come motu proprio quando si sarebbe potuto ottenere il grande ombrello del Quirinale?
Il Quirinale
E l’ombrello è arrivato. Il capo dello Stato ha firmato il Milleproroghe, ma con riserve, anche sulle mancate coperture finanziarie in proiezione temporale riguardo a certi articoli. Ma soprattutto sulla questione balneari. “Sulle concessioni demaniali – ha scritto il presidente Mattarella nella lettera inviata al Governo – è evidente che i profili di incompatibilità con il diritto europeo e con decisioni giurisdizionali accrescono l’incertezza del quadro normativo e rendono indispensabili, a breve, ulteriori iniziative di governo e Parlamento (…). Sarà necessario assicurare l’applicazione delle regole della concorrenza e la tutela dei diritti di tutti gli imprenditori coinvolti, in conformità con il diritto dell’Unione, nonché garantire la certezza del diritto e l’uniforme applicazione della legge nei confronti dei soggetti pubblici e privati che operano in tale ambito”.
La bacchettata del presidente, dunque, sembra una dura reprimenda, ma in realtà aiuta proprio la premier, offrendole una più che autorevole motivazione per sostenere l’ubi maior davanti ai suoi elettori, ai suoi compagni di partito e ai burrascosi alleati, che con la pancia, o apparentemente, si sentono ancora di lotta e meno di governo.
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