Era prevedibile che Verona sarebbe diventata la storia elettorale della tornata amministrativa 2022, di fatto l’apertura della campagna per le politiche 2023. La ricandidatura del sindaco Federico Sboarina, fresco iscritto a Fdi, aveva fin dapprincipio fissato un a posta alta: l’elezione di un sindaco formalmente espresso da Giorgia Meloni in un’importante città del Nord leghista-forzitaliota, anzi del Veneto del doge Luca Zaia.



Ma anche la candidatura di Damiano Tommasi – senza tessera e senza precedenti esperienze politiche – a guidare un “campo larghissimo” di centrosinistra ha aggiunto forte originalità alla contesa attorno all’Arena. Né è stato marginale il ritorno in scena di Flavio Tosi: supersindaco leghista per un decennio prima di Sboarina. Una figura emergente a livello nazionale prima di rompere con Matteo Salvini e Luca Zaia e diventare un battitore libero nell’orbita di Matteo Renzi (nel 2017 fu Patrizia Bisinella, compagna di Tosi e senatrice “tosiana” di fiancheggiamento del Pd renziano, a uscire sconfitta al ballottagglo con Sboarina).



Le urne non hanno deluso le attese. Tommasi – contro molti pronostici – si è imposto nettamente al primo turno, con un solido 40% (cinque anni fa il centrosinistra non era neppure approdato al ballottaggio). Il sindaco uscente – formalmente appoggiato dalla Lega – si è imposto (33%) nel derby con Tosi (24%), sostenuto da Fi. E il risultato ha immediatamente innescato una reazione a catena nel centrodestra nazionale: Tosi ha chiesto e ottenuto l’iscrizione a Fi (perdendo l’appoggio di Italia Viva) e da Roma ha offerto un “apparentamento” a Sboarina: per ricomporre un centrodestra che – nei numeri del primo turno – appare ancora maggioritario a Verona. Qui la tradizione moderata non è mai stata realmente interrotta nella storia repubblicana: neppure da Paolo Zanotto, sindaco dal 2002 al 2007 con i colori della Margherita.



Sboarina ha però rifiutato l’apparentamento ufficiale: pur caldeggiato da Salvini e Silvio Berlusconi, nonché da un esponente di vertice di Fdi come Ignazio La Russa. La scelta del sindaco uscente di inseguire da solo – “faccia a faccia” – Tommasi non ha però sorpreso, anzi. Sboarina – a questo punto – è l’unica opzione in campo per gli elettori veronesi di centrodestra. E se gli riuscirà la rimonta al ballottaggio del 26 giugno, la vittoria sarà solo sua e delle forze che lo hanno appoggiato (fra le quali la Lega veronese). Se perderà lui e la leader nazionale Meloni hanno già preso a lamentare le “scelta di palazzo” di Fi di appoggiare Tosi spaccando preventivamente il centrodestra. Colpi di scena – in un’ex roccaforte della Dc dorotea – non appaiono impossibili: Tosi è sembrato voler subito riaprire la partita ventilando un “appoggio esterno” a Sboarina al ballottaggio, ma a patto di un tavolo in extremis con Fi. Si vedrà.

Lo scenario – locale e nazionale – resta comunque significativo. Da un lato Verona avrà un sindaco “di rottura”. Lo sarebbe Sboarina confermato con la maglia di Fdi – e sostanzialmente ripudiato da Fi – dopo un lungo cammino tutto interno alla (controversa) destra veronese. Lo sarebbe Tommasi che – dietro alcune dichiarazioni – ha lasciato capire di sentirsi esponente di un “partito che non c’è”: quello del Premier Mario Draghi. Che non fonderà mai nessun partito, né correrà alle elezioni politiche: ma potrebbe ancora guidare a lungo il Paese da palazzo Chigi o approdando infine al Quirinale.

Comunque si risolva la contesa, i diversi “muro contro muro” di Verona provocano fin d’ora la politica nazionale. Al Nord(est) resta difficile la “chimica” fra l’emergente partito di Meloni e le due forze dominanti del centrodestra (non è certo che a Verons l’elettorato leghista abbia appoggiato compatto Sboarina, è anzi verosimile che abbia in parte votato Tosi e in parte alimentato il 45% di astensioni). Il “laboratorio Verona” sembra invece attribuire chance a un “campo largo di centrosinistra”: ma certamente non quello allo studio presso le segreterie nazionali di Roma. La lista civica personale di Tommasi (16%, la più votata in assoluto) ha sopravanzato il Pd (13%) e ha coagulato i consensi di altre nove liste, da +Europa/Azione alla Sinistra ecologista. Ma “missing” M5S: alle politiche 2018 aveva raccolto in città il 22,4%, alle comunali ’22 non ha presentato neppure una sua lista.

Se Tommasi dovesse imporsi, aggiungerebbe un anello non trascurabile a una catena di grandi amministrazioni comunali di centro-sinistra nel Lombardo-Veneto: da Milano fino a Padova (che ha appena rieletto al primo turno Sergio Giordani) passando per Bergamo e Brescia. La linea di resistenza “urbana” all’egemonia del centrodestra sui territori sembra quindi consolidarsi e articolarsi: anche se in collegamento tenue con i leader nazionali del Pd e certificando sicuramente l’evaporazione del consenso elettorale grillino.

Come altre grandi città, anche a Verona l’esito della sfida municipale andrà analizzata alla luce di una specifica “story” socioeconomica. Verona rimane una potenza industriale, mentre ha perso parecchia della centralità finanziaria di un tempo (è dell’ultimo anno l’acquisizione di Cattolica Assicurazioni da parte di Generali). Soffre tuttora dell’ambivalenza – non solo geografica – di essere crocevia del Pentagono Italiano, delle direttrici europee che da Bolzano raggiungono Bologna e da Milano si dipanano fino a Venezia e Trieste. Verona è l’ombelico della macroarea dove il Pil pro-capite è massimo in Italia e allineato ai massimi Ue: ma non riesce a far valere questa sua posizione ai tavoli decisionali. Vedremo se quello che sarà comunque un cambio di scenario a Palazzo Barbieri aprirà nuove dimensioni al sistema-Verona, quando comunque tutto attorno sta cambiando.

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