Le notizie drammatiche che arrivano dalla Cina riguardano – purtroppo – non solo il coronavirus: la sofferenza di quel paese sterminato arriva a noi anche quando protagonista è la generosità eccessiva.

Siamo nella città di Mixin, appena fuori la metropoli di Chongqing, e molti particolari devono ancora essere chiariti. C’è un fatto però assolutamente certo ed è il peggiore: sette bambini sono morti annegati nel fiume cercando di salvare il primo, ovvero l’ottava vittima.



Questo annegamento di massa è avvenuto domenica pomeriggio lungo il fiume Fu, nel sud-ovest della Cina. Uno di loro, non si sa se un bambino o una bambina, si sarebbe gettato in acqua per fare un bagno e subito avrebbe iniziato ad avere difficoltà. Per questo motivo, gli altri – pare in gran parte femmine – si sarebbero gettati a loro volta per soccorrerlo, senza riuscire nell’intento e, anzi, morendo a loro volta.



Le agenzie in proposito sono avare di dati a parte quello per cui l’annegamento è in Cina la principale causa di morte per bambini con età inferiore ai 14 anni. Questo dato parrebbe portare a una conclusione e cioè che in Cina gli adulti non avrebbero l’abitudine di stare accanto ai bambini quando giocano nuotando o accanto all’acqua. Difficile però essere sicuri di questo dal momento che la distanza di chilometri e di mentalità impone una grande prudenza.

Rimane un insegnamento di grande importanza, ed è che per aiutare qualcuno bisogna in primo luogo essere esperti nella propria disciplina. È noto che la persona qualsiasi, il bagnante che si trova in spiaggia a prendere il sole e sente le grida di chi è in difficoltà, non deve mai, in alcun modo, gettarsi in acqua per aiutare: può solo cercare un bagnino o chiamare il 118.



E questo atteggiamento improntato alla prudenza vale analogicamente in tanti altri campi della vita. Non possiamo metterci ad aiutare chi sta per “affogare” – perché caduto per esempio nella trappola della dipendenza del gioco, della droga, del sesso o di altro – se non siamo a nostra volta armati di una competenza che non è solo quella dettata dalla buona volontà o dal desiderio di salvare chi è in difficoltà.

Lo sanno bene gli assistenti sociali, gli psicologi, e, in generale, i terapeuti. Più a rischio sono coloro che si trovano ad aiutare persone che “annegano” senza avere in proposito delle capacità strutturate e organizzate. Sto pensando ai genitori, ai fratelli, ai coniugi e anche ai preti.

Rispetto a questi ultimi, purtroppo, il rischio è a volte molto alto. Mentre nel caso dei parenti, infatti, è ormai assodato che in casi come quelli che descrivo ci si debba rivolgere a degli specialisti, non così avviene per i sacerdoti. Spinti dal Vangelo, e da un amore di Dio che da solo non rende idonei coloro che non hanno la scienza umana adatta al caso, molti fratelli nel sacerdozio si trovano non di rado a essere come i sette bambini morti uno dopo l’altro per aiutare il primo.

Speriamo che almeno nel caso del sacerdote ci sia un adulto (un vescovo, un fratello, una persona competente) capace di stare accanto a chi nuota in acque pericolose.