I bambini disertano la scuola per un giorno per protestare contro la presenza di una compagna disabile. Il caso riguarda una scuola primaria di Cornegliano Laudense (Lodi) nella quale i genitori hanno preso una decisione senza mezzi termini per contrastare il rischio che i figli venissero penalizzati nell’apprendimento scolastico. La presenza di una bambina con particolari difficoltà, a loro giudizio, avrebbe infatti comportato disagio e rallentato l’attività didattica.
Non è mancata la reazione del Collegio dei Docenti che in un comunicato ribadisce “con forza e determinazione che l’idea dell’inclusione, oggi più che mai, è parte integrante e fondante del corredo genetico di questa istituzione scolastica” e sottolinea il principio irrinunciabile di una “scuola aperta a tutti” secondo l’articolo 34 della Costituzione.
Difficile commentare la notizia senza sfoderare argomentazioni scontate che finirebbero per suggerire una separazione manichea: da una parte l’ottusa insensibilità di genitori indubbiamente da criticare e dall’altra l’illuminata difesa di diritti irrinunciabili propugnata dalla comunità scolastica da difendere a spada tratta.
In realtà le tensioni che si contrappongono mettono allo scoperto la fragilità di un mondo, di una mentalità consolidata, che riguarda il modo stesso di percepire e giudicare un problema. Affrontare un disagio, un’emergenza, richiede una “preparazione”, una sorta di allenamento a individuare i fattori in gioco e giudicarne il peso, prima di scegliere le modalità di intervento.
Oggi è diventato normale quando ci si trova di fronte a un ostacolo, a un disagio, eliminarlo, far di tutto per rimuoverlo evitando l’inquietudine di una riflessione. Succede quando ci si interroga sulla vita di un essere umano concepito magari “per sbaglio” o di fronte alla malattia che produce disagio e costi non preventivati… Sempre più spesso la decisione più istintiva che la cultura che respiriamo ci indica come “naturale” e risolutiva determina soluzioni estreme, a prescindere dalla possibilità di un impegno con la realtà, con gli interrogativi e le istanze che potrebbero suggerire una strada diversa.
Tornando alla situazione di disagio vissuta in una classe della scuola primaria nei pressi di Lodi, appare vistosa anche la distanza fra l’enunciazione di principi fondamentali e imprescindibili di “inclusione, legalità, amore per la bellezza intesa come costante ricerca del benessere per chiunque varchi la soglia del nostro istituto” (come chiarisce il comunicato citato) e l’iniziativa intrapresa dai genitori di bambini di un’intera classe di scolari che loro malgrado – anche nel tempo già trascorso sui banchi di scuola -, hanno perso l’occasione per sperimentare che è possibile riconoscere ogni bambino, per quanto diverso e problematico possa essere a causa della sua disabilità, come un compagno di strada, un compagno che richiede un ascolto e un’attenzione diversa, magari qualche fatica, ma che può suscitare anche la sorpresa di un incontro, di un’amicizia e di un bene possibile.
Quel che affiora evidente è invece la mancanza di dialogo fra i protagonisti di una vicenda che non può trovare facili sbocchi in affermazioni di principio sfociate di fatto in un esasperato braccio di ferro. Ricordo il racconto della mamma di un bambino con una disabilità gravissima, totalmente dipendente dagli altri in quanto incapace di controllare i movimenti e di pronunciare qualsiasi parola: visto il caso molto particolare, prima dell’inizio della scuola, erano stati coinvolti nella decisione i genitori della classe in cui sarebbe stato inserito. “Avere un compagno così sarà un bene per i nostri bambini, la smetteranno di litigare per un giocattolo, capiranno cose importanti” aveva detto un papà aprendo il varco a un’accoglienza che poi si verificò reale e positiva per tutti.
Non si tratta di rafforzare utopiche visioni o buoni sentimenti, ma piuttosto di avvicinarsi alla realtà senza il timore della complessità e delle contraddizioni a volte impegnative, ma ricche di percorsi possibili, di intese imprevedibili.