Il pediatra dell’Università di Siena Carlo Bellini ha recentemente pubblicato un libro nel quale analizza il meccanismo per cui i bambini ridono in determinate situazioni, associato nell’ideale comune (e con il filtro tipico degli adulti che osservano la scena) ad un momento di gioia e spensieratezza. Associazione che il libro prova proprio a confutare perché, in realtà, come spiega lo stesso Bellini a Repubblica, i bambini non sono veramente in grado di comprendere l’emozione della gioia e, soprattutto, l’ironia, e ridono tendenzialmente per imitare i genitori e verificare che il mondo attorno a loro è sicuro.
“Un neonato”, spiega, “ride per imitare la madre” e solamente “attorno ai 4 anni” lo fa come razione alle situazioni che gli capitano attorno: “Se la situazione è minacciosa, reagisce piangendo. Se non presenta rischi, via libera al ridere“. Rappresenta, insomma, una sorta di segnale del fatto che “non c’è nessun pericolo” per il bambino, che poi solamente attorno ai 10 anni inizia a ridere nel modo in cui fanno gli adulti, con risate “figlie dell’umorismo“. In altre parole, “il riso indica che stanno analizzando il mondo per giudicare se è incongruente e se ci sono pericoli. Vedere il papà o la mamma che ride”, continua Bellini, per un neonato equivale a vedersi mentre ride a sé stesso. Capisce di essere una persona desiderabile” e così inizia a formare “il suo carattere“.
Il pediatra Bellini: “Dopo i 10 anni i bambini ridono per sfuggire alla routine quotidiana”
L’altro specchio della medaglia dei bambini che ridono per imitare la madre, però, è rappresentato dal fatto che “rapporti freddi o insensibili con i genitori” nella primissima fase della vita, “possono creare danni permanenti“. Certamente, però, spiega Bellini, “non serve sforzarsi” perché anche le singole “differenze individuali” contano nello sviluppo dei neonati ed è (probabilmente, perché la scienza pediatrica lavora soprattutto per ipotesi) qui che si giocano le differenze tra introversi ed estroversi, con bambini che ridono più facilmente rispetto ad altri che lo fanno meno, ma che sono ugualmente felici.
Dopo la prima fase del riso come imitazione e modo per capire il mondo, attorno ai 4 anni, ribadisce Bellini, “i bambini capiscono di essere diversi dagli altri, notano che la realtà può avere aspetti incongruenti” e ridono in relazione alle situazioni particolari che non rappresentano una minaccia. Infine, dopo i 10 anni “iniziano ad afferrare metafore e giochi di parole e comprendono concetti astratti” ed è proprio in quel momento che si forma “la capacità di ridere alle battute tipica degli adulti”. L’aspetto singolare è che i bambini che ridono dopo i 10 anni lo fanno anche funzionalmente “per sfuggire alla routine e agli aspetti stereotipati della vita”.