In genere, quando parliamo di bambini soldato ci riferiamo a guerre lontane, quelle dell’Africa o del cosiddetto Terzo mondo: a conflitti dimenticati che non interessano più a nessuno. Invece il pentito Luigi Bonaventura ci racconta che ci sono anche qui, in Italia, dove ’ndrangheta e mafia “educano” fin da bambini figli e nipoti a diventare criminali: bambini soldato. “Si cresce in famiglie che ti inculcano la subcultura mafiosa con padri e zii che ti indottrinano al culto della famiglia ndranghetista”.
Il “percorso formativo” per lui è iniziato quando gli hanno messo in mano una pistola che le sue mani piccole non riuscivano quasi a tenere, tanto che, nel tentativo di “scarrellare”, cioè di portare indietro il caricatore per mettere il colpo in canna, ricorda ancora di essersi fatto male. Poi passarono ai fucili d’assalto, a raccontare le gesta della famiglia ’ndranghetista come si parlasse di eroi, fino ad andare al mattatoio per imparare a uccidere, a squartare, a mettere le mani nel sangue.
“All’epoca – aggiunge Bonaventura – io queste cose non le capivo. Poi da grande ho compreso che era un modo per farmi prendere dimestichezza con la morte”, così da imparare a non sentire più niente quando spari per ammazzare gli uomini. Come quelli delle guerre lontane, i bambini soldato di casa nostra vengono travolti da una violenza cieca che investe piccoli uomini manovrabili, ricattabili.
Qui da noi, però, c’è qualcosa di peggio rispetto ai bambini soldato di cui leggiamo. Questi subiscono una violenza che passa per le mani di chi li dovrebbe carezzare e amare e che invece dà loro in mano una pistola. Padri e zii trasmettono una cultura della morte che osano chiamare “educazione”, che inculca l’appartenenza ad una cosca come fosse questione di merito e ragione d’orgoglio.
Una violenza peggiore, perché arrivando da chi ami e ti educa, ti violenta, ti nega l’infanzia, non ti fa sentire niente, e ti obbliga a una vita da malavitosi, di assassini e di carcere. Bambini che non sentono più niente, divengono impermeabili al dolore e alla pietà. Ma anche alla gioia, allo stupore. Niente. Sono automi che sparano, spiano, giocano con i cadaveri manovrati da grandi, consapevoli di usarli perché essendo piccoli non sono né imputabili né legalmente perseguibili. Ma che vengono condannati a una prigione nella quale sono rinchiusi fin da subito: quella di essere senza emozioni e sentimenti. Di non vivere più.
Nel carcere di Rebibbia i collaboratori di giustizia chiamano se stessi “morti viventi”. Perché sanno quanto rischiano, decidendo di abiurare alla loro vita passata nello sforzo di togliere se stessi e i figli dalla vita sciagurata che hanno ricevuto.
Per questo sono da ammirare. Perché prendono in mano la loro vita e si caricano di un peso che moltissime volte li schiaccia. Coltivando ogni volta la speranza che lo Stato, nel loro caso, riesca a proteggerli da quelli che un tempo erano i loro padri, zii e fratelli.