Siamo in una società che vive immersa in un clima culturale in perenne transizione, dove tutto può risultare fluido, sfuggente, secondo la definizione che anni fa ne dette Zygmunt Bauman, che ha coniato la metafora della “liquidità”. Da allora tutti hanno cominciato a parlarne ed era invitabile che prima o poi venisse applicata anche alla maturazione sessuale, un processo che precede e accompagna lo sviluppo e consolidamento dell’identità sessuale. Un processo che caratterizza fortemente l’adolescenza, ma che inizia nell’infanzia e prosegue anche nell’età adulta, se non trova quella dimensione identitaria che soddisfa pienamente la persona. Ma cosa significa che la società è diventata liquida? Che la sessualità abbia un andamento fluido, indeterminato, oscillante tra femminilità e mascolinità, senza che il soggetto sappia decidersi per una scelta precisa, in un senso o nell’altro? E perché succede?
I riflettori sono tornati ad accendersi su questa complessa, e a volte drammatica, questione nella recente vicenda del Careggi, l’ospedale di Firenze in cui il team dei medici specialisti ha deciso di somministrare dei farmaci che bloccano lo sviluppo sessuale a minori in piena crisi identitaria sotto il profilo sessuale. In un articolo di Chiara Ferrara, apparso pochi giorni fa sul Sussidiario, si riporta la dichiarazione del presidente della società di Psicoanalisi, Sarantis Thanopulos, in cui si sottolinea come la pubertà, segnando il passaggio dal corpo neutro al corpo sessualizzato, rappresenti una trasformazione molto complessa che può generare grosse difficoltà nei bambini e nelle bambine. Ma la maggior parte di loro, uscendo dalla adolescenza, riesce a superare queste incongruenze, soprattutto se è correttamente accompagnata e sostenuta sul piano psicologico. Ed è proprio su questo punto che attualmente si sta concentrando il dibattito.
Vale la pena però ricordare quanto accaduto nella legislatura precedente. Mentre in Senato si svolgeva tra mille perplessità il dibattito sull’uso della triptorelina per bloccare lo sviluppo puberale dei ragazzi con disforia di genere, il 25 febbraio 2019 la triptorelina veniva inserita dall’AIFA nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale, ai sensi della legge 648/1996, vanificando di fatto ogni ulteriore approfondimento.
E anche oggi la questione fondamentale è capire se ai bambini con disforia di genere si possa, o addirittura si debba, somministrare farmaci bloccanti la pubertà, con conseguenze spesso irreversibili, oppure si debba offrire loro un percorso di psicoterapia che consenta di acquisire una maggiore consapevolezza della loro identità complessiva e quindi decidere in conseguenza.
Inoltre, ai sostenitori ad oltranza del principio di autodeterminazione, che propongono il cosiddetto metodo affermativo, va ricordata la fragilità dei processi decisionali dei bambini e degli adolescenti. Anche nei casi di disforia di genere è necessario acquisire una maturità complessiva che investa il più possibile il loro progetto di vita, prima di formulare scelte così vincolanti come l’identificazione sessuale in fase di transizione. Tra i grandi sostenitori della triptorelina ci sono le case farmaceutiche, così come per i sostenitori del metodo affermativo ci sono gli ideologici del principio di autodeterminazione, che troppo spesso sottovalutano i molteplici fattori di condizionamento a cui i minori sono sottoposti. È ben noto il caso della Tavistock Clinic a Londra dove, dopo molteplici casi di suicidio tra i giovani sottoposti a terapie bloccanti, a cui avevano aderito sulla base di protocolli privi di rigore scientifico, è stata sospesa la somministrazione di questi farmaci e sono state chiuse le unità cliniche specialistiche. La principale protesta è venuta dalle famiglie ed è stato il direttore della Tavistock a denunciare gli abusi che venivano commessi nella clinica.
Gestire la transizione nei ragazzi in cui sia necessario intraprendere trattamenti ad hoc richiede un forte ed importante protocollo psicoterapeutico che coinvolga la maturazione complessiva del soggetto, anche sotto il profilo neuro-psicologico. Proprio in quegli ambiti che investono la totalità delle sue relazioni con il mondo e non solo l’eventuale transizione sessuale. Ed è proprio questo l’aspetto che sembra essere stato ignorato al Careggi. Dare ai giovani con disforia di genere il tempo di fare scelte ponderate e mature, non significa bloccare il loro sviluppo sessuale per via farmacologica. Questo non impedisce affatto né lo stigma sociale, né il rischio di autolesionismi e suicidi. Occorre invece una qualificata presa in carico di tipo complessivo: bio-psico-sociale. L’intensa sofferenza causata dalla incongruenza di genere, sia psicologica sia fisica, richiede un intervento che investa la totalità della persona supportandola nel processo di elaborazione delle sue scelte, anche in prospettiva del proprio progetto di vita: occorre chiedersi non solo chi sono, ma anche chi voglio essere e perché voglio poter agire in un certo modo o non in un altro.
La disforia di genere è fondamentalmente un fenomeno psico-sociale e la triptorelina non è un farmaco salvavita; anche perché bloccando lo sviluppo sessuale ne impedisce la maturazione. Non consente all’adolescente l’esperienza indispensabile a capire chi è, chi sono gli altri e le altre per lui; non gli permette di capire come vuole realizzarsi e riduce il suo progetto di vita alla sola dimensione sessuale, che per altro congela. Di fatto rallenta tutta una serie di scelte che invece sono urgenti, improcrastinabili, e hanno bisogno di essere elaborate e messe a confronto con tutta la sua storia personale in un’ottica intensamente relazionale.
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