Ancora poche ore prima che la Casa Bianca designasse Ajay Banga come nuovo presidente della World Bank, i media internazionali battevano la seguente notizia: “Il primo ministro delle Barbados Mia Mottley appoggia due candidati, fra cui il direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio, Ngozi Okonjo-Iweala”.



Quindi: una leader antropologicamente caraibica lanciava un’economista nigeriana (anche se con studi e secondo passaporto Usa), radicata nell’iconografia contemporanea per il look rigorosamente afro-etnico. Un personaggio perfetto per la narrazione del ricambio maturato all’improvviso, al vertice di una delle grandi istituzioni finanziarie mondiali con la cacciata di David Malpass, nominato da Donald Trump e notoriamente scettico verso l’ideologia green.



“La Banca Mondiale deve concentrarsi di più sul contrasto al cambiamento climatico” aveva assicurato la “dem” Janet Yellen, ex presidente della Fed (prima donna) e ora primo segretario al Tesoro donna a Washington. Dal cilindro di Joe Biden (presidente bianco, maschio “patriarcale” della East Coast europeizzante di un Paese che non ha ancora avuto una donna alla Casa Bianca) è invece uscito Banga. Non privo di un profilo mediatico “terzomondiale” marcato da un immancabile turbante sikh. Ma sotto di esso vi è una figura di leader internazionale molto diversa da quella così fortemente immaginata e desiderata dall’establishment politically correct.



Anzitutto l’India odierna – sotto la leadership di Narendra Modi – non è un modello di democrazia evoluta, proprio quando la nuova confrontation globale fra Occidente euramericano e Oriente russo-cinese si gioca – nella narrativa politico-culturale – sulla solidità di istituzioni e prassi liberaldemocratiche. E, certamente, il subcontinente indiano è tutt’altro che un paradiso per la condizione delle donne, fra caste ed estremismi religiosi. Né è un’economia all’avanguardia sui diversi fronti della tutela ambientale.

New Delhi è invece la capitale di una vera potenza globale: che in questa delicatissima fase geopolitica gli Usa vogliono a tutti i costi schierata con l’Occidente, come vero “bastione” anticinese in Asia (agganciata ad Aukus, la “Nato 2.0” imperniata sull’Australia). La nomina di Banga sembra segnare anzitutto questa “puntata” di Washington nel nuovo Grande Gioco in corso fra Ucraina e Taiwan. Senza dimenticare che il nuovo presidente della World Bank è figlio di un generale, che nell’India post-coloniale significa allievo della grande tradizione militare dell’impero britannico.

Il pedigree recente di Banga è peraltro quello di un “veterano di Wall Street” (lo ha presentato così il Financial Times). E l’incarico distintivo di un curriculum prestigiosissimo (che lo cita anche come membro dell’international council del World Economic Forum di Davos) è comunque quello ai vertici di Mastercard: di cui Banga è stato per un decennio chief executive officer. Un’esperienza manageriale che pare lontana da quella del development banking classico, proprio della mission della World Bank. Banga è dunque molto più esperto di cyberfinanza che di infrastrutturazione del Quarto Mondo. Conosce tutti i segreti dei circuiti internazionali dei pagamenti, che sono oggi già teatro di guerre forse più “disruptive” di quella in corso in Ucraina.

È probabile che la sua Banca Mondiale sia chiamata a breve a fare da regista al “Recovery Plan” già disegnato per Kiev: ma non è affatto escluso che possa agire anche da “poliziotto bancario”, se non da comandante in capo dell’Occidente, come già nel dopo-seconda guerra mondiale. Stavolta green-washed.

PS: fra i molti incarichi ricoperti attualmente da Banga c’è anche quello di presidente di Exor NV, la holding olandese della famiglia Agnelli, di cui John Elkann è amministratore delegato.

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