La Banca Privata Italiana vede la sua fondazione con il nome di Banca Privata Finanziaria, in una Milano degli anni sessanta. Solo due sportelli a Roma e nel capoluogo della Lombardia, grazie alla fusione della Banca Unione. A possedere la maggioranza delle quote è Michele Sindona, “un faccendiere spregiudicato in odore di mafia e P2, capace di operazioni finanziarie estremamente spericolate”, dirà di lui il giornalista Antonello Piroso. La crisi però è dietro l’angolo e si materializza nel crack del ’73 e nella decisione di Paolo Baffi, all’epoca governatore, di metterla in liquidazione coatta. La nomina ricade sull’avvocato Giorgio Ambrosoli che, appoggiato da Baffi e dal capo della vilanza di Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, riuscirà a dimostrare che lo Stato non si sarebbe dovuto fare carico del fallimento dell’istituto bancario. “Quando fallisce una banca spesso c’è qualcuno che punta a inserirsi per lucrare su quel salvataggio”, dice Paolo Mieli. Quella della BPI è la storia “di una presa di coscienza da parte del potere pubblico che dietro quel fallimento c’erano motivi abbietti, e lo Stato, nonostante le forti pressioni, non intervenne e lasciò che la banca fallisse”. Lo Stato sarà inoltre assente ai funerali di Ambrosoli, ucciso per volere di Sindona nel ’79.
Banca Privata Italiana, la morte di Giorgio Ambrosoli
La ragnatela di potere che si trova dietro Banca Privata Italiana provocherà la morte dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, incaricato di occuparsi della liquidazione dell’istituto. Quest’ultimo contatterà per primo l’amico Pino Gusmaroli perchè lo assista nel difficile compito, subito dopo aver accettato l’incarico. “Se poche persone e pochissime istituzioni non avessero fermato Sindona [Michele, il titolare della banca, ndr], la Borsa di Milano oggi avrebbe un azionista di riferimento: la mafia”, dirà Antonio Calabrò, il vicepresidente del Centro per la cultura d’impresa. Sono noti gli aspetti più criminali della vicenda, sottolinea Repubblica, dalle manovre sui depositi fiduciai, per dirottare la liquidità delle banche verso società offshore di Sindona, il riciclaggio, e persino quel tessuto fitto che legava banca e politica. Abrosoli definirà invece Sindona un “maestro direttore e concertatore che ha potuto agire come ha voluto perchè ben assistito da funzionari e amministratori e sindaci delle due banche”, in una relazione depositata il giorno del delitto di Aldo Moro, il 9 maggio ’78.