“La Banca popolare di Bari è giustamente stata commissariata perché per troppi anni mal gestita da una banda di mascalzoni. La vigilanza della Banca d’Italia dormiva, anzi era collusa con la cattiva gestione dell’istituto. E adesso il governo prende i soldi dalle nostre tasche per salvare l’istituto e i suoi violentatori. Rottamiamoli tutti, vaffa a tutti, onestà-onestà, ci vogliono le ruspe!”. Fine dell’articolo secondo i crismi del populismo in voga.
Peccato che questa sintesi sia una balla spaziale. È in voga in queste ore, lo sarà per molti giorni (il populismo per anni). Il governo si è spaccato, abbiamo letto – già: ma come può spaccarsi un pan grattato? – sul decreto con cui il Mediocredito centrale, banca pubblica, è stato incaricato di salvare la banca barese con quasi un miliardo di euro di travaso finanziario. Eppure era l’unica cosa a fare (e non c’entrano i banchieri, ad accertare e punire le cui colpe sicuramente la magistratura provvederà: o se non provvederà, perché incapace, davvero non è colpa della politica).
Ma quella sintesi, va ripetuto, è una balla spaziale. Pane, appunto, per i denti del populismo antibancario peggiore. Fertilizzato per anni, ricordiamocelo, dal renzismo e dai suoi conflitti d’interesse, soprattutto in campo creditizio. Cerchiamo di capire invece perché è accaduto tutto ciò, un altro crack bancario in Italia; e perché il salvataggio pubblico – almeno in questa fase d’emergenza – era l’unica cosa da fare.
Innanzitutto le responsabilità. Un nome e un cognome, ovvi e ineludibili. Marco Jacobini, artefice dapprima della grande ascesa della banca e poi del suo declino, padre-padrone dell’istituto. Uomo senza dubbio di visione e di talento, molto meglio – ad esempio – dell’industriale veneto Gianni Zonin artefice del crack della Popolare di Vicenza cui spesso è stato accostato, è stato poi come obnubilato da una visione satrapista del potere, familista, con questo incredibile tandem di figli cooptati al sommo vertice come se la banca fosse sua e non di 70 mila (si dice, speriamo siano meno) piccoli azionisti, come si conviene a una popolare. E con manager a volte anche bravi, ma non abbastanza per isolare – o se necessario abbandonare – il capofamiglia e i suoi congiunti nelle loro responsabilità.
Assurto al vertice trent’anni fa, figlio del fondatore Luigi, Jacobini aveva pilotato la crescita da bravo banchiere “all’antica”, e la crescita aveva pure funzionato: ma gli anni passano per tutti e il potere dà alla testa, soprattutto quando è incontrastato per la mancanza di sistemi immunitari efficienti nella società e nell’economia di un ambiente ancora troppo ancorato a modelli feudali, cui tende a uniformarsi sostituendo al potere araldico quello economico. Un sistema che nonostante in Puglia abbia saputo assumere più che altrove orientamenti produttivi, è rimasto comunque ai margini del sistema-Paese e ha sempre gravemente subìto uno spread creditizio inibente.
Gigantismo velleitario e credito clientelare, intanto, hanno distinto gli anni dello sviluppo più recente, come sarà oggi compito dei commissari analizzare. Nella distrazione di tutta la filiera dei controlli, interni ed esterni, se è vero com’è vero che ancora 5 anni fa con la benedizione, anzi con la moral suasion della Banca d’Italia, alla Bari era stato permesso (cioè richiesto) di accollarsi l’onere del salvataggio delle Cassa di risparmio di Teramo, la famigerata Tercas, che ha portato ulteriori ammanchi al patrimonio dell’acquirente. E anche con questa operazione, Jacobini aveva voluto consolidare il suo ruolo istituzionale, all’ombra del quale la gestione discutibile dell’istituto continuava indisturbata.
Poi il contesto. Il contesto di una Puglia laboriosa e imprenditoriale, attraversata però anch’essa – sia pur meno di Campania e Calabria – dalla malavita organizzata, una presenza tentacolare e potente anche nel mondo dell’economia e delle imprese, una Puglia politicamente gracile, con uno Stato sostanzialmente assente, al di là delle parate del 2 giugno e del 4 novembre, e nonostante i proclami dei capi delle istituzioni. Un contesto in cui far credito sano è difficile per i più bravi e per i meno collusi, figuriamoci.
Infine, certo: la Banca d’Italia. Ormai espropriata dal potere completo della vigilanza che il vecchio ordinamento le conferiva, dove aveva autonomia nel dosaggio della severità e della clemenza. Quel modello funzionava: preveniva, sopiva, sosteneva. Comandava e ne aveva i poteri.
Oggi il regime delle vigilanza è tutto improntato ai metodi e alla lama affilata della Bce, una strana vigilanza di obbedienza tedesca, che non ha avuto nulla da ridire di fronte al salvataggio appena varato della Nord LB – una delle più grandi banche commerciali della Germania posseduta dagli Stati della Bassa Sassonia e della Sassonia-Anhalt (al 65%) – da parte dei suo soci pubblici che ci hanno messo quasi 4 miliardi di euro; con il pretesto che ci sarebbero stati acquirenti privati (sì, i fondi Cerberus e Centerbridge che offrivano però appena 600 milioni!); ma era la stessa Bce che aveva detto “niet” all’intervento del Fondo interbancario di garanzia nella Tercas, rilevando appunto che il Fondo ha natura istituzionale pubblica.
Ecco, di fronte a questo doppipesismo della vigilanza bancaria europea i poteri della Banca d’Italia risultano molto ridimensionati, e questo è ormai chiaro a tutti i banchieri, oggi in Italia: forse non lo era ancora abbastanza cinque anni fa a Jacobini. Ma su certe prudenze del passato, certe irresolutezze, prima di lanciare il crucifige occorre ricordarsi che spesso, in questo campo, un allarme è una profezia che rischia di autoavverarsi. E prima di lanciarlo si è portati a riflettere una volta di più, forse una volta di troppo.
Se una colpa può essere senza dubbio addebitata a questa Banca d’Italia è di non aver detto chiaro e tondo quel che è ormai palese, essendo scritto se non nella lettera sicuramente nel senso della nuova normativa unitaria: che la vigilanza non è più materia sua. L’Istituto centrale si è ridotto ormai, in ogni singolo Paese europeo, a un pletorico centro studi.
E domani? Domani il salvataggio può e deve trasformarsi in un’opportunità: amministrare credito specialistico nel Sud Italia, un incrocio tra il credito classico – quello che piace tanto alla Bce, quello che presta denaro solo ai novantenni purché accompagnati dai genitori – e quello nuovo, che credito non è, il venture capital, il private equity e tutti i nuovi strumenti finanziari (ma pur sempre attingibili in banca) che aiutano le piccole e medie imprese di talento (al Sud ce ne sono tante) a crescere.
Infine: nessuno s’azzardi a ripetere che la colpa del dissesto è nella costituzione cooperativa della Banca popolare di Bari. Il Monte dei Paschi di Siena e Carige, i due dissesti bancari italiani che insieme a Banca Marche superano per valore tutti gli altri, hanno riguardato banche di credito ordinario, non popolari. Dove pure si perpetuavano fenomeni deteriori di leaderismo pluridecennale, basti pensare a Berneschi a Genova, senza alcun bisogno del consenso popolare dei soci cooperativi. Quando si vuol malversare, si trova sempre il modo per gratificare illegittimamente coloro dai quali il proprio potere deriva. Che non sono quasi mai meglio di chi li vuol corrompere. Piccoli soci o fondi di private equity che siano.