“Chi fa credito senza pegno, perde la roba, l’amico e l’ingegno”. Giovanni Verga dice o fa dire questa frase in suo romanzo, ed è più efficace di tanti studi e ricerche che spiegano – non solo sotto il profilo tecnico-economico – la storia e il ruolo del danaro, la responsabilità che innesca il dovere di restituire qualcosa con degli interessi e le dinamiche storiche e culturali che tutto questo hanno prodotto.
Dietro la banca (almeno quella “commerciale” classica, dove si porta il risparmio e alla quale si chiede il credito per le cose essenziali) ci sono intuizioni, storie ed esperienze umanamente avvincenti e spesso straordinarie. E simili fra loro. Se qualcuno andasse a sbirciare la storia della Bank of America e del Credito Valtellinese, per esempio, scoprirebbe parallelismi sorprendenti, testimonianze della potenza e della fecondità di quei momenti della storia in cui si incontrano miracolosamente lo slancio ideale di qualcuno, che mette in primo piano come il dato fattuale più concreto nelle relazioni umane sia la fiducia e la buona volontà di chi ha voglia di costruire qualcosa. Nei momenti di grandi crisi, come l’attuale, è naturale spingersi a rileggere i “massimi sistemi” e cercare il senso e il valore che sta dietro quel che si vive.
Sarebbe anche il momento buono per capire come o cosa cambiare, se si sta subendo o si sta godendo della condizione in cui siamo.
Se restiamo sul tema del debito, dell’accesso alle risorse, la soluzione non è immediata né facile conseguenza delle apparenze. I numeri, a proposito di debito, dicono per esempio che in Europa siamo il paese col minor rapporto fra debito privato (delle famiglie) e prodotto interno lordo. Il 43%, il più basso in Europa, molto più basso dei paesi anglosassoni. E siamo anche il paese con un risparmio privato (ancora) eccezionale. È la ragione per cui siamo rimasti in piedi nonostante un debito pubblico raccapricciante e una reputazione di paese cialtrone. Debito pubblico che è vero che è dello Stato, ma è vero anche che per mantenerlo questo Stato deve spendere ingenti risorse, le stesse risorse che servono per pagare mensilmente sanità, scuola, pensioni, stipendi, infrastrutture, se possibile ricerca, cultura, sicurezza eccetera.
Il giorno che lo Stato stesse per dichiarare bancarotta è chiaro che si rivolgerebbe al risparmio privato, alla liquidità “sonante” dei cittadini (che è quasi 3 volte il Pil). Anche perché una cancerosa burocrazia rende complicato o impossibile mettere a reddito il suo patrimonio, quello dello Stato, che – per fortuna – è anch’esso ingentissimo. Qual è la vera minaccia allora, il debito privato o quello pubblico? Ed è il debito un’invenzione ingiusta, un sopruso in sé e per sé?
Sicuramente non è il debito il problema. Anzi, se ci riflettiamo il debito è il contraltare della fiducia, della speranza persino. Se la banca concede il mutuo a una coppia, la banca sta sperando che non divorzino, sperando che mantengano il lavoro, sperando che non emigrino, che non capiti un altro terremoto dove le carte falsificate hanno fatto finta che non è zona sismica, che non si trasferiscano e intuiscano che la crisi rende possibile lo scoppio di una bolla per cui meglio pagare un affitto. Tutti scenari che possono mandare all’aria il rimborso del mutuo e costringere la banca a ricorrere alle “procedure di recupero credito”. Che vuol dire 4 o 5 (anche 6, 7) anni e un 30% (minimo) di perdita secca.
Con il debito l’84% degli italiani possiede una casa. Con il debito vanno avanti il 65% delle piccole imprese (che spesso avrebbero i propri soldi, ma preferiscono tenerli nascosti). Con il debito 30 milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà in 20 anni, prima che la mancanza di un’adeguata “infrastruttura culturale” li ricacciasse in un caos letteralmente mortale.
No, decisamente non è il debito il problema, ma semmai per cosa lo si contrae e come si intende affrontare il problema del suo rimborso. Perciò, per quello privato vuol dire accesso alle risorse (educative, relazionali, economiche), alle opportunità, grado di libertà, distribuzione della ricchezza; per quello pubblico vuol dire rendiconto del suo utilizzo e – qui si incontrano i due debiti – prospettiva con cui la comunità nazionale, in ultima istanza, deve mantenerlo o abbatterlo.
In questo momento, già da qualche anno, peraltro il credito è una delle cose più economiche che esistono. Per famiglie e imprese. Purtroppo pure per le banche, che pure loro necessitano di credito, ed è complicato in un solo articolo spiegare perché.
Poi le esperienze frustranti non devono diventare il pericoloso paradigma definitorio del sistema. Qualcuno, per esempio, lamenta il tasso di interesse richiesto per l’acquisto di un’auto o l’obbligatorietà di ricorrere al finanziamento. È interessante. Sull’obbligo del finanziamento la ragione è storico-economica. Una volta quando si comprava l’auto a rate c’era l’ipoteca iscritta e alla fine eliminarla costava tempo e soldi. Poteva anche capitare che il concessionario disonesto non pagasse la casa madre e a un poveretto veniva richiesto di pagare di nuovo al fallimento il prezzo delle rate già pagate! Oggi il sistema del finanziamento elimina ogni problema, la casa madre incassa subito, il concessionario pure (più o meno) e il cliente o è allettato con un tasso zero o con polizze e garanzie varie per tutta la durata del rimborso. E che la finanziaria sia quasi sempre della casa automobilistica fa parte di questo disegno, consente a questa di ridurre i costi che richiederebbe un intermediario finanziario esterno e di giocare la concorrenza anche con questo strumento.
Quando non è così o se i tassi richiesti sono – ingiustificatamente – troppo alti, o se c’è poca trasparenza, bisogna solo eliminare ogni bon ton e ogni politically correct e “sparare”. La gogna dei casi singoli. È l’atteggiamento più responsabile e più utile perché “il mercato” impari a spiegarsi e impari a non aver paura di giudicare i suoi attori e di confessare la fatica che fa a fare il suo miglio essenziale, quello in cui, raggiunta una posizione, accetta che sia per definizione sempre in discussione. L’atteggiamento, concreto e con i piedi per terra, di trovarsi la soluzione malgrado il marcio di un mercato che non funziona (ops, come in democrazia malgrado una politica lercia e inutile) è l’alimento ideale che mantiene in vita chi materialmente, sia pure pro-tempore, incarna quel mercato ingiusto o quel potere tossico.