Ha destato un certo clamore e meritato un certo rilievo sulla stampa, la notizia che il gigante bancario Unicredit ha annunciato la chiusura di 450 filiali e il taglio di 6.000 dipendenti in base al nuovo piano industriale. Che scade nel 2023. E questa data è importante per definire il perimetro della notizia. Perché si tratta di un programma da spalmare su tre anni. Continua cioè nient’altro che un processo noto e in moto da diversi anni.
Sui bollettini statistici reperibili dal sito della banca d’Italia si può infatti riscontrare che a fine 2009 c’erano in Italia 788 banche, 34.000 sportelli e 330.500 bancari. A fine 2018 abbiamo 505 banche, 25.400 sportelli e 278.300 bancari. Perciò anche solo a occhio, 52.000 bancari in meno in 9 anni in un sistema industriale dove Unicredit, insieme a Intesa Sanpaolo, rappresentano circa il 46% di questa forza lavoro, questi 6.000 esuberi annunciati non sono niente di clamoroso. I pignoli dei numeri direbbero che è un’accelerata, ma poi bisognerebbe fare la media di sistema nel triennio per capire se è così.
Quel che importa sarebbe capire meglio cosa sta quindi accadendo e perché. E si può subito precisare che, per fortuna, cominciano a esserci, sia pure lentamente, delle differenze fra gli attori di questo sistema per cui per capire meglio gli esuberi di Unicredit si dovrebbe analizzare di più il modello industriale, la visione del futuro, l’idea di business in patria e fuori. Perché, specialmente per i grandi gruppi, oggi è indispensabile allungare lo sguardo e approfondire la conoscenza di come e quanto si dispieghi l’attività fuori confine. In termini attuali e di programmi.
Per uno sguardo più di sistema invece basta poco per sgonfiare un po’ la notizia. Il che è utile anche per sgombrare il campo dai pettegolezzi, come quegli spifferi che arrivano periodicamente dal centro Europa che dicono che i grandi devono immaginare matrimoni e alleanze strette, per diventare ancora più grandi e capaci di reggere le sfide (o meglio le crisi) di un continente vecchietto e un po’ viziato. Perciò, direbbero i pettegoli, chi sa che il dimagrimento di Unicredit non sia come quello della sposa (o dello sposo, ormai non meno esigente).
Ma tolte queste cose, cioè le peculiarità industriali dei singoli e i pettegolezzi sul futuro, quel che accade non è abnorme. Negli anni ’90 abbiamo assistito a una proliferazione di filiali e di presenza fisica che aveva due matrici. La prima era una voglia di concorrenza, figlia di un certo blocco dei decenni precedenti, per cui era una sorta di esordio di mercato, le banche iniziavano a cambiare l’atteggiamento, a nutrire l’idea della competizione, a maneggiare le dinamiche delle imprese private. L’altra era paura. Occupare più spazio possibile serviva a scongiurare l’arrivo degli altri, magari stranieri, dentro uno spazio europeo che ambiva, premeva e facilitava queste possibilità, ma mentre occorreva un processo di svecchiamento e aggiornamento non così facile e non così veloce. Così si è arrivati alle strade con più banche che fornai.
Oggi è evidente che quella struttura non ha più senso e ciò, di nuovo schematizzando, per due ragioni. La prima economica, perché la crescita non giustifica quel modello e quell’apparato. La seconda, è ovvio, tecnologica. Su questo punto si potrebbe osservare che il modello che si sta disegnando corre troppo. L’offerta “tecnologica” forse supera la domanda e supera le capacità diffuse. Le persone, i clienti, soffrono della scomparsa dell’interlocutore fisico, non sono così pronte a gestire tutto dal proprio strumento o via telefono. Ma d’altra parte pure quando è nata l’automobile, i primi economisti dissero che era un settore senza futuro perché era impensabile un così gran numero di autisti. Ci misero un po’ a capire che uno se la doveva guidare lui la macchina.
Quel che conta è che fino a oggi il sistema bancario è stato l’unico a presentire con grande anticipo questi eventi per cui già da quegli anni ’90 (mentre si aprivano ancora filiali) aveva inventato strumenti concertati e contribuzione mista aziende-dipendenti per gestire queste decine di migliaia di uscite senza traumi (anzi i primi bancari sono usciti con grandi soddisfazioni… gli ultimi meno, ma senza alcun diritto a versare nemmeno una lacrima) e senza soldi statali. Oggi l’approccio che dovrebbe guidare queste analisi è quello di uscire dalla banca e andare a vedere come sta messo chi, fuori, ha bisogno della banca. Il sistema produttivo, le PMI, il risparmiatore e il suo reddito (più che la sua ricchezza). E poi tornare a vedere, dentro la banca, se quelli rimasti stanno facendo quei grandi progressi di crescita culturale e formativa che serve a un Paese messo così come sta.