Non solo Ilva. Le crisi industriali, infatti, sono giunte fino a settori, fino a solo pochi anni fa, inimmaginabili. È il caso, ad esempio, di quello bancario travolto negli scorsi anni dalla tempesta legata alle truffe, o presunte tali, ai clienti e ora chiamato, anche con riferimento a uno dei grandi player del sistema, in Italia ma non solo, come Unicredit, ad affrontare una pesante fase di “dimagrimento” degli organici.



L’istituto, vale la pena ricordare, è la prima in Italia sia per patrimonio gestito che per fatturato, conta oltre 26 milioni di clienti e circa 89.000 dipendenti in 32 paesi. I principali mercati nei quali opera sono, oltre l’Italia, Austria, Germania ed Europa centro-orientale. In questo quadro si inserisce il Piano, illustrato ai sindacati, che prevede tra il 2019 e il 2023 in Italia ben 6.000 uscite e la chiusura di almeno 450 filiali.



In particolare 500 sono le “eccedenze di capacità produttiva” del piano appena chiuso Transform 2019 mentre 5.500 riguardano le “nuove eccedenze” legate al piano Team23. È intenzione, ha tenuto a precisare l’azienda, di Unicredit di cercare “soluzioni condivise” con i sindacati.

In questo ambito si guarda, in particolare, a quei lavoratori che maturano il requisito pensionistico entro il 31 dicembre 2023 (con diritto alla pensione fino all’1 gennaio 2024 compreso). Per le altre uscite Unicredit intende poi valutare in via prioritaria l’attuazione dello strumento del fondo di solidarietà di settore. Si ritiene, infatti, sostenibile far riferimento all’uscita di personale più prossimo al diritto di pensione, con un anticipo medio rispetto al primo requisito pensionistico di 36 mesi, adottando finestre di uscita che garantiscano certezza di realizzazione degli obiettivi di riduzione del personale.



I sindacati, ad esempio la Fabi, chiedono, in questo quadro, che a fronte di ogni due eventuali esuberi corrisponda almeno un’assunzione di un giovane bancario che costerebbe all’azienda, certamente, meno.

La vicenda invita a due riflessioni. In primis, può un Paese come l’Italia assistere con rassegnazione alla depauperazione di professionalità, e di posti di lavoro, in un asset strategico perlopiù in uno dei (pochi) grandi attori rimasti? Che impatto potrà avere questo per il piano industriale (che manca) di un’Italia 2030? L’altra considerazione riguarda il crollo dell’ennesima certezza, se non mito, del mercato del lavoro che fu e che, probabilmente, non è più. Anche il bancario, infatti, esce, nei tempi del mondo globale, da quella categoria mitologica del “posto fisso” che ha rappresentato, per alcuni decenni, uno dei grandi sogni della nostra (fu) classe media.