“Prima l’epopea del Cavaliere, poi è sbucato un Conte e adesso arrivano i Draghi. Siamo proprio il Paese delle favole!”, dice una delle tante freddure che girano su WhatsApp. Divertente. Non di favole ma di previsioni si tratta se invece si guarda al tema delle banche, dei crediti non performing (Npl), risparmio e accesso al credito.



Oddio, se facciamo un piccolo passa indietro e ricordiamo il 2016 o giù di lì, l’argomento starebbe bene anche nel tema dei miracoli. Perché se si considerano la montagna di sofferenze del sistema bancario in quel momento, l’inevitabile lentezza e complessità con cui si muove il mastodonte (il sistema bancario), la crisi mai risolta di tutti gli aspetti essenziali di questo Paese, il risultato è stato encomiabile, comunque la si pensi. E a bassissimo impatto sul bilancio pubblico. Nel complesso infatti – perché diciamo un’altra volta che dentro il termine generico di banche o sistema bancario ci sono realtà ormai molto diverse fra loro e prima non era così – siamo arrivati alla catastrofe del Covid almeno con un sistema bancario con una dotazione di capitale adeguata. Tanto è vero che il famoso spread (che funge da termometro sulla tenuta complessiva del sistema finanziario), non si è impennato, non ha dato scossoni. Il problema è adesso di prospettiva. E di ruolo.



La prospettiva vede stime certe di crescita degli Npl (le sofferenze, le insolvenze che dir si voglia). Ma di quanto? Le stime guardano in particolare alla massa di finanziamenti agevolati dalla moratoria concessa in ragione dell’emergenza. Se il 5-10% di questi prestiti sfocia in Npl, aumenterebbe del 7-14% lo stock di sofferenze che grava sul sistema. Il riparto di questi numeri fra i principali gruppi per come questi hanno sostenuto le moratorie dà ancora un risultato sostenibile. Sostenibile per le banche, per la funzione di “sicurezza” che svolgono nella tenuta del sistema finanziario nel complesso, per il credito che devono erogare quando si riparte. Le incognite sono se saranno solo queste le percentuali e riguardano quanto sta fuori dal perimetro di queste previsioni. Perché oltre i finanziamenti agevolati dalla moratoria ce ne sono moltissimi altri che hanno retto grazie ai sostegni al reddito, al blocco dei licenziamenti e alla sospensione del futuro. Nel senso che nella speranza di ripartire molti hanno tenuto duro, ma non è detto che lo facciano dopo.



In questa chiave si legge anche la crescita poderosa dei depositi nel 2020. Oltre 100 miliardi in più di depositi, che ormai superano il Pil. In astratto una buona cosa, ma in un’ottica di sviluppo no. Guardiamo quanto è lungo l’elenco delle ombre fosche che stanno dietro il risparmio che cresce. Paura, diffidenza, incertezza. Il risparmio cresce in base a previsioni di tempi duri ancora lunghi. Non è (salvo rarissime eccezioni) un risparmio da crescita del fatturato o dei redditi ovviamente, ma di rinuncia alle spese. Poi sperequazione e diseguaglianza.

Il risparmio conferma che il Paese è polarizzato in blocchi, il pubblico e il troppo largo pezzo di economia che vive dell’intermediazione pubblica, il settore produttivo privato “buono” e solido e tutto il resto. Altrimenti sarebbe inspiegabile la massa di poveri che cresce (prima e a prescindere dal Covid), milioni fermi dal lavoro, interi settori allo stallo e il risparmio che cresce. Di molto. Poi sottocapitalizzazione delle imprese. Famiglie ricche, imprese povere. Lo slogan che caratterizza un ampio segmento del sistema produttivo delle piccole imprese e che tanto comporta in termini di crescita dimensionale, di passaggio generazionale, di tenuta e adeguamento nel tempo. E infine, non di poco conto, il pretesto per una politica fiacca e incapace da anni. La ricchezza e il risparmio del blocco che la concentra resta lo spazio angusto in cui si muovono finte alternative politiche, falsi piani di sviluppo e di ripresa. Si gioca sempre con quelle carte. Un incentivo di qua, una tassazione di là, ma sempre ruotando attorno a questo flusso che – non dimentichiamo per quanto detto – è un flusso che in buona parte corrisponde a crescita del debito pubblico. Una parte della crescita del risparmio e della ricchezza privata è un travaso improduttivo dal bilancio pubblico. C’è poco da fare.

La svolta sarebbe che questa ricchezza torni a muoversi verso l’investimento (imprese) e verso il consumo. Che faccia da leva per far crescere la produzione complessiva, il reddito di chi non ce l’ha, che allarghi i flussi di cassa privati e pubblici. Si accennava al ruolo delle banche. In questo quadro il ruolo corretto è quello di non ostacolare in prima battuta, com’era nel 2016 e ancor prima nel tremendo credit crunch del 2008-2009. Ostacolo derivante dai macigni delle insolvenze accumulate che bloccano l’attività ordinaria (e compromettono il Paese intero con la sua reputazione per terra). E magari di favorire lo sviluppo, con una crescita culturale e professionale, di mestiere, che permetta loro di superare gli intoppi regolamentari che derivano da un disegno, quello bancario europeo e internazionale, calzato su dinamiche più normali e nelle quali noi ci troviamo sempre male.

Normale è una brutta parola, ma serve per stigmatizzare le nostre troppe anomalie. La lunghezza temporale dei nostri problemi, che si trascinano per decenni come in nessun altro Paese. Le banche lo stanno facendo. Anche il processo di aggregazioni è una bella pagina di coraggio e di capacità di prospettiva. Speriamo che non sia il segno (come il discorso del risparmio) di percezione di lunghi e cattivi destini ancora incipienti. Tutto il resto è politica, cioè necessità di fare sintesi e decidere se e cosa si può si aggiustare e se e cosa va rifatto in fretta da capo.

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