Le banche non hanno mai goduto di buona fama: penso che questa sia una costante nella storia. Considerate da sempre settore d’élite, con salari medi molto elevati e un gran numero di privilegi che formano oggetto di preteso possesso perenne (“diritti quesiti”), sono invise alla maggior parte della gente, tanto più quando il resto del mondo del lavoro rischia di andare a rotoli, come la crisi ha ampiamente dimostrato. Diciamo subito che in gran parte l’osservazione è fondata, sebbene sia lecito distinguere tra impiegati, che, in modo più o meno onesto, cercano di portare a casa lo stipendio e manager, i cui guadagni farebbero rabbrividire chiunque (basta dare uno sguardo, per convincersi, alle relazioni sulle remunerazioni pubblicate in occasione dell’approvazione dei bilanci annuali), ossia tradizionalmente tra “bancari” e “banchieri”.
Le ragioni dell’odio valgono sia per l’attività creditizia tradizionale, sia per le attività di gestione del risparmio e consulenza finanziaria e assicurativa. La prima è ormai ridotta all’osso e, vista la bassa crescita e i tassi negativi, offre margini di guadagno sempre più risicati. Qui, quando l’economia tira, si sa, quasi nessuno protesta, salvo qualche lamentela su esosi costi dei prestiti; quando, invece, le cose vanno male, la banca cerca in tutti i modi di recuperare l’esposizione di incagli o sofferenze, conducendo spesso all’esasperazione imprese e famiglie. La cessione a terzi di crediti deteriorati o incagliati, per ripulire i bilanci, è diventata un nuovo filone di business, ricercato soprattutto da operatori esteri, esperti e agguerriti in tema di recupero crediti, senza curarsi dei possibili dissesti che un’attività senza scrupoli condotta in questo campo può generare sul tessuto sociale e produttivo di una nazione.
La seconda attività, fonte ormai dei maggiori ricavi, non è meno insidiosa: spesso sotto poco lungimiranti pressioni commerciali, il risparmio delle famiglie viene sistematicamente travasato di prodotto in prodotto, generando ricchi flussi commissionali a beneficio di soggetti gestori e di banche collocatrici. La logica vale dai prodotti più semplici a quelli più complessi: le ormai continue variazioni unilaterali dei contratti di conto corrente, che ne peggiorano le condizioni, difficilmente vengono gestite in modo corretto, segnalando, ad esempio, al pensionato l’assurdità di sostenere costi complessivi annui pari o superiori a 100 euro per l’accredito mensile della pensione, operazioni di prelievo o pagamento con carta e qualche raro bonifico, in luogo di passare a convenzioni più adatte a tali operazioni e molto meno costose. Parimenti, la vendita indiscriminata di prodotti finanziari più o meno complessi ha comportato seri rischi per i risparmi dei clienti, azzerati in alcuni casi dal dissesto della banca che li aveva proposti.
In questo scenario non mi stupisce più di tanto il piano industriale dell’Unicredit fino al 2023 che, a fronte di un utile stimato a 5 miliardi di euro (nel 2023) prevede 8 mila esuberi, di cui più di 6 mila in Italia e la chiusura di circa 500 sportelli, con grande sconcerto dei sindacati, peraltro ora impegnati sul fronte del rinnovo del contratto collettivo. Eppure la cura dimagrante per il settore è in atto da tempo: nei piani industriali dei primi nove gruppi italiani sono previste circa 30 mila uscite, di cui la metà già concluse; non mancano poi foschi scenari elaborati da società di consulenza (Oliver Wyman), dove si legge che le banche italiane dovranno ridurre i costi di 5 miliardi di euro, corrispondenti a circa 70 mila risorse e 7 mila filiali nei prossimi 5 anni, benché alcuni esperti considerino tale stima semplicistica e non veritiera.
Ci sono state – è vero – nuove assunzioni (oltre 20 mila giovani in 9 anni), ma si tratta per lo più di contratti a tempo determinato (reiterati nel tempo, alcuni sospesi, altri poi convertiti a tempo indeterminato), o anche di tipo misto, con una piccola remunerazione fissa e una parte variabile, legata al volume di affari commerciali prodotto, analogamente ai promotori finanziari. Il mondo bancario di oggi riflette problemi che, a mio parere, dovrebbero essere posti al centro di un sereno e serio dibattito: da una parte, la presenza di una forte dicotomia tra personale assunto anni fa, che si cerca in modo più o meno soft di “prepensionare” con incentivi ancora più generosi dei privilegi acquisiti nel tempo, soprattutto nei confronti dei livelli dirigenziali (tipo finanziare il riscatto della laurea per accelerare la pensione) e personale assunto oggi, con salari più compressi ed evidenti conseguenze di equità intergenerazionale, che contribuiscono a isolare una generazione contro l’altra, come una serie di monadi giustapposte.
Dall’altra parte, l’impatto delle nuove tecnologie imprime una velocità esponenziale al cambio di paradigma culturale e professionale, così da rendere assolutamente anacronistico – oltre che inutile – accanirsi a difendere il passato, anziché pensare al futuro. Diventa fondamentale interrogarsi sulle nuove competenze da acquisire e su come ridistribuirle con adeguati piani formativi, eliminando, o almeno riducendo, la distanza tra giovani e anziani (dove il lavoratore “anziano” di oggi ha meno di 50 anni, quindi troppo giovane per mettersi a riposo e troppo vecchio per continuare a lavorare) e favorendo la rinascita di un capitale umano e sociale che forma, a mio avviso, il cuore produttivo di qualsiasi impresa. L’alternativa è stringere la capacità produttiva entro confini oligarchici, un unico intelletto agente che muove tante leve: così si darebbe vita a nuove dicotomie, non meno pericolose di quelle passate.