Per essere updated – aggiornati, alla moda – anche questa rubrica si occuperà della fondamentale distinzione tra conservatori e progressisti (da non confondere con i riformisti che si possono ritrovare in entrambe le categorie di persone). Per farlo richiamerà alla memoria una vicenda lontana e quasi dimenticata, ma le cui conseguenze ancora si fanno sentire sull’economia meridionale.



Parliamo dell’ingloriosa fine del Banco di Napoli e di tutto quello che la decisione di disfarsene ha comportato per le imprese e le famiglie del Mezzogiorno. E, per estensione, dell’intero Paese. Una fine che si sarebbe potuta (e dovuta) evitare, ma che i tempi nuovi che correvano ha reso alla fine inevitabile anche per l’incapacità di capire e reagire dell’allora classe dominante.



Il Banco come lo conoscevamo con il suo condottiero ultimo Ferdinando Ventriglia (a proposito, quando ne rivaluteremo la figura?) era stato individuato come vittima sacrificale all’interno di un disegno che doveva salvare una banca meglio protetta, la Nazionale del Lavoro, e mandare in pensione in netto anticipo sui tempi l’intero apparato dell’Intervento Straordinario.

Bisognava risparmiare qualche spicciolo per consentire all’Italia di entrare in Europa e in nome del progresso non sembrò vero di potersi sbarazzare dell’ingombrante istituto di credito, vecchio di 500 anni, fonte di ogni nefandezza e punto di riferimento di quel partito reazionario che era diventato per l’opinione pubblica la Democrazia cristiana che ne governava le sorti.



Dunque, di punto in bianco, nel 1991 – un anno prima di Maastricht – si chiudevano i rubinetti per l’assetata industria del Sud e si cancellavano anche gli impegni già assunti attraverso il prosciugamento della fonte. La conseguenza di questo assai innovativo modo di procedere fu mettere in difficoltà migliaia di imprese che non potettero restituire al Banco le somme che quest’ultimo aveva anticipato.

Si apre così quella voragine nei conti che fu oggetto di scherno e condanna. Ventriglia ne morì di crepacuore e la fortezza del risparmio meridionale si ritrovò senza il suo più strenuo e capace difensore. I tempi erano quelli dell’avanzata leghista a livello nazionale e della conquista comunista al Comune di Napoli. Con grida di vendetta e sete di giustizia il Banco fu sacrificato.

L’occasione veniva bene anche perché con la stessa fava si potevano sfamare due piccioni il secondo dei quali, la Bnl, poté incamerare il boccone a prezzi di saldo salvo poi rivendere il malloppo all’allora Sanpaolo di Torino che lo pagò il giusto (ma questa è un’altra storia). Insomma, i progressisti di casa nostra alleati con i rivoluzionari del Nord compirono il delitto imperfetto.

Se questo scempio fu reso possibile fu per la mancanza di solidi conservatori che avessero avuto la forza e il coraggio di opporsi al misfatto senza farsi impressionare dalla marea montante del dileggio e della calunnia. Se c’era qualche macchia da lavare lo si poteva fare senza gettare nell’immondizia l’abito intero, anche perché l’alternativa sarebbe stata andare nudi come poi è stato.

Conservare il Banco di Napoli alla comunità locale sarebbe stato il più bel regalo che un ceto, questa volta dirigente, avrebbe potuto fare all’economia del Mezzogiorno con grande vantaggio per l’intera comunità nazionale. La smania di progresso non conduce sempre a miglioramenti e spesso nasconde fini inconfessabili. L’istinto conservatore ci salva spesso da tragici errori.

P.S.: Siamo consapevoli che questa nota risente dei difetti di una ricostruzione giornalistica. Ma il senso di ciò che è accaduto è esattamente quello che si è voluto trasmettere. Quello che distingue le persone è l’integrità del pensiero e l’intelligenza del proprio agire. Cosicché progressisti e conservatori possano entrambi servire a realizzare cambiamenti utili quando necessari.

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