A pochissimi giorni dalla sua adozione, il parere della Banca centrale europea “relativo alla struttura proprietaria della Banca d’Italia e alla proprietà delle riserve auree” ha dato luogo a diverse e anzi opposte letture, da quella che ritiene si tratti di una ferma battura d’arresto nei confronti dei cosiddetti sovranisti, a quella che opina invece nel senso di una via libera alla riacquisizione alla mano pubblica del capitale di Bankitalia e delle riserve auree.



In effetti, l’argomentazione della Bce è tutt’altro che univoca e perspicua: le indicazioni sono fornite in via indiretta, talvolta sotto forma di richiesta di chiarimenti e altra volta additando gli effetti che dovrebbero, a suo parere, scongiurarsi. Ma le conclusioni sembrano coerenti con quanto paventato su queste pagine da chi scrive, in un’intervista pubblicata qualche mese fa: cioè che il portato effettuale determinato dalla improvvida riforma della nostra Banca centrale approvata tra la fine del 2013 e i primi mesi del 2014 avrebbe posto seri ostacoli a ogni pur commendevole misura normativa che volesse ristabilire il regime comune a molti Paesi europei, ove sia le quote del capitale di tali enti, sia le riserve auree e in valuta sono indiscutibilmente nella titolarità dello Stato. Un assetto che in nessun modo contrasta con l’esigenza di garantire all’Istituto centrale indipendenza di gestione.



D’altra parte, i regimi proprietari si porrebbero al di fuori delle competenze dell’Ue e quindi dei suoi organi: lo sancisce l’art. 345 TFUE. Ma in questo, come in altri casi (relativi sempre alla cosiddetta proprietà pubblica) pare che tale limite non valga con riferimento all’Italia. Ci sarà modo di tornarvi: il documento è piuttosto lungo e richiede un’analisi giuridica attenta ai dettagli. Val la pena, tuttavia, esporre qualche osservazione a prima lettura.

In primo luogo, il valore della funzione consultiva dell’Eurotower: la funzione è prevista dall’art. 127, co. 4, TFUE, che vi assoggetta le autorità nazionali sui progetti di disposizioni legislative che rientrino nelle sue attribuzioni, ma nei limiti e alle condizioni stabiliti dal Consiglio, che vi ha provveduto nell’ormai lontano 1998, con la decisione n. 415. Il parere, pur obbligatorio, non parrebbe potersi definire di per sé e in linea generale vincolante (cfr. art. 4 della dec. n. 415): ma nel caso del nostro Paese occorre tenere in attenta considerazione i profondi mutamenti della forma di governo, determinati dalla riforma costituzionale del 2012, che, modificando gli artt. 81, 97, 117 e 119 Cost., ha individuato nel cosiddetto ordinamento dell’Unione europea e, quindi, nel corrispondente plesso organico, lo snodo apicale di formazione di quello che una volta si definiva indirizzo politico, al punto tale che gli obblighi primari di tutte le pubbliche amministrazioni nazionali consistono nel garantire l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito in coerenza con il suddetto ordinamento.



In secondo luogo, pur non avendo escluso l’astratta opportunità tecnica delle proposte modifiche del regime giuridico della Banca d’Italia, e frammezzo a qualche “inesattezza” giuridica (ad esempio, per quanto attiene al rapporto tra la legge e lo Statuto della Banca, quasi che il secondo prevalga sul primo…), la Bce mette in guardia il legislatore italiano dai rischi di contestazioni (almeno giudiziali) che possano derivare dall’acquisto delle quote dell’Istituto di via Nazionale a un valore nominale inferiore rispetto a quello previsto dallo Statuto, con ricadute (inevitabili) “sotto il profilo del diritto di proprietà”. Una conseguenza prevedibile della privatizzazione di Bankitalia. Ed è da credere anzi che, ove così si procedesse, gli attuali titolari protesterebbero che il valore delle quote debba essere ragguagliato al patrimonio della Banca, comprensivo delle riserve, nonostante i vincoli gestionali discendenti dall’appartenenza al Sebc.

E anche in proposito, dal parere emergono interessanti indicazioni, lì dove si precisa che le riserve auree e in valuta “devono essere iscritte nello stato patrimoniale delle Bcn o della Bce”. Smentendo quanti, nel 2013, si affannavano (anche da palazzo Koch) a sostenere che, pur dopo la riforma voluta dal Governo Letta e, quindi, il trasferimento delle quote del capitale a soggetti privati (più correttamente: la legittimazione del loro possesso da parte di tali soggetti), nondimeno sarebbe rimasta indiscussa l’appartenenza delle riserve medesime al popolo italiano, il Presidente Mario Draghi, esaminando la proposta di legge che vorrebbe interpretare autenticamente l’art. 4 del Testo unico delle norme di legge in materia valutaria, acclarando appunto tale spettanza, allora data per certa, e disponendo pertanto che la Banca d’Italia deterrebbe tali cespiti esclusivamente a titolo di deposito, scrive che il riferimento al deposito “potrebbe essere letto nel senso che limita (o addirittura esclude) il potere della Banca d’Italia di adottare decisioni indipendenti relativamente alla detenzione e alla gestione delle riserve ufficiali, necessarie per l’assolvimento dei propri compiti ai sensi dei Trattati”.

Opinione tanto autorevole, quanto singolare, se si considera che l’art. 127 TFUE espressamente dispone che il Sebc abbia il compito di “detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri”: e non solo perché nel parere medesimo si afferma che le riserve auree rientrerebbero tra quelle in valuta estera, ma anche perché la locuzione utilizzata dai Trattati non è affatto incompatibile ed è anzi coerente con l’istituto giuridico del deposito, volendosi sottolineare che detenzione e gestione devono esser svolte in nome e per conto delle collettività statuali.

D’altra parte, medesima espressione appare, ad esempio, nello Statuto della Banca di Francia, che attesta l’appartenenza delle riserve allo Stato. Ma anche sotto tale punto di vista, l’Ue non è una associazione tra eguali: essa appare diversa a seconda della posizione dell’osservatore, a seconda del Paese dal quale guardi.

Con un eccesso (soltanto colposo?) di fiducia nell’europeismo degli altri, l’Italia è andata fin troppo avanti in un processo che, invece di essere di integrazione (basta chiederlo ai giudici del Tribunale costituzionale tedesco!), ha finito per assumere i caratteri di una trasformazione eterogenea del nostro ordinamento costituzionale, che si stenta (per dirla con un eufemismo) a qualificare ancora come fondato sulla sovranità popolare.

A qualcuno piace parlare di “federalismo asimmetrico”, forse una clausola edulcorante: frattanto da Francoforte ci rammentano che “un trasferimento delle riserve in valuta estera (comprese le riserve auree) dallo stato patrimoniale della Banca d’Italia allo Stato eluderebbe il divieto di finanziamento monetario ai sensi dell’art. 123 del Trattato, che vieta alla banca centrale di finanziare il settore pubblico e contrasterebbe altresì con il principio di indipendenza finanziaria ai sensi dell’articolo 130 del Trattato”.

Chissà che, finito l’effetto edulcorante degli espedienti verbali, non spunti fuori che, guardando da Roma, a Bruxelles sieda un protettorato internazionale…