Vista dall’alto l’Europa può avere le sembianze di uno stagno la cui portata progressivamente si riduce. E così appare nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta (alla sua prima assemblea) che ricorda come il peso del Vecchio continente sul Pil globale sia sceso negli ultimi venti anni dal 26 al 18 per cento. Questo mentre gli Stati Uniti mantengono la posizione e la Cina la migliora di quattro volte.



Appare quindi evidente che l’Unione europea – nano politico e verme militare, secondo le sferzanti definizioni che le sono state attribuite – stia mettendo a rischio anche il suo ruolo di gigante economico. Occorre dunque correre ai ripari superando la frammentazione che ancora caratterizza l’area e accettando la sfida tecnologica in tutti i campi in cui si manifesta. E, poi, regole meno asfissianti per la crescita delle imprese.



Per portare a conclusione il disegno comunitario occorre avere una politica di bilancio e integrare il mercato dei capitali. L’idea che si possa viaggiare insieme e veloci ciascuno con il suo modello di navigazione va definitivamente archiviata e ci vuole il coraggio di innovare anche nell’impianto normativo che oggi, così com’è, impedisce di raggiungere i livelli di competitività necessari a stare al passo con i concorrenti del resto del mondo.

In questo contesto più generale, l’Italia sta conoscendo un periodo di relativa vivacità che si va però a innestare su un quarto di secolo di bassa crescita con gli investimenti che si mantengono timidi e la produttività che ristagna. In particolare, il modesto livello dei salari riflette la scarsa produttività del sistema nonostante una decisa ripresa dopo la pandemia e la nuova effervescenza che comincia a fare capolino nel Mezzogiorno.



I segnali di risveglio vanno colti e amplificati con le misure indicate dal Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) non solo irrobustendo l’impalcatura delle infrastrutture del Paese ma portando a termine, soprattutto, le riforme utili a venir fuori delle pastoie burocratiche che scoraggiano i capitali nazionali e ancor più quelli internazionali. Indispensabile liberarsi della zavorra del debito pubblico per finanziare il quale si sottraggono risorse allo sviluppo.

In agguato c’è un pericolo da cui guardarsi: un calo demografico che l’Istat calcola in 5,4 milioni di persone entro il 2040 nonostante gli abbondanti i flussi in entrata. Il che si manifesterebbe in un fastidioso calo della ricchezza totale e per abitante. Urgono misure efficaci per innalzare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro di giovani e donne e bisogna fare un pensierino su come modificare le politiche per l’immigrazione.

Il motore di ogni economia restano le imprese che in Italia stentano ad affermarsi in contesti innovativi e a tecnologia avanzata. Per riconoscere e stanare i nuovi campioni occorrono soggetti adeguati come le società di venture capital che devono incrementare il loro apporto come avviene, per esempio, in America, Francia e Germania. L’intelligenza artificiale va vista come un alleato e non come un nemico da combattere o evitare.

In definitiva, Panetta mostra come i problemi che ci troviamo a fronteggiare oggi siano gli stessi di trent’anni fa sia pure sotto spoglie diverse, figlie dei tempi che cambiano. Se il sentimento di fondo che ci portiamo dietro è quello del declino (giustificato in un modo o nell’altro), la novità è che potremmo essere sulla soglia di una nuova epoca che ci dia qualche soddisfazione a partire dalla capacità di rinnovarsi del comparto produttivo.

Naturalmente gli inciampi sono sempre possibili ed è da verificare che si consolidi il nuovo protagonismo del Sud e che cadano i lacci e i lacciuoli che tengono ferme innovazione produttività e occupazione. Se c’è un modo per aspirare all’ottimismo questo passa per un massiccio investimento sulle abilità lavorative (capitale umano) e sulla tecnologia. Due aspetti che vanno a braccetto perché l’uno è funzione dell’altro.

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