Caro direttore,
è accaduto tutto ieri, nello spazio di poche ore. A Milano una guardia giurata di 26 anni, Flavio La Manna, passa in auto col rosso ed investe un motociclista; scende, ne constata la morte (in realtà, avvenuta qualche ora dopo), torna sui propri passi in preda alla disperazione più accecante e si uccide con la pistola d’ordinanza.
Poco dopo, da queste colonne Renato Farina – firma autorevole del giornalismo italiano – scrive a proposito del “caso” Cesare Battisti, il cui ricorso contro la condanna a quattro ergastoli è stato rigettato dalla Corte di Cassazione: “Guai a scandalizzarsi se ha fatto ricorso. Non sarà la sofferenza di un assassino a far girare meglio il mondo”. Ed aggiunge, citando papa Francesco: “Mai privare del diritto di ricominciare!”.
Non sono d’accordo e cerco di spiegarlo proprio mettendo a paragone i due fatti sopra citati.
Entrambi i protagonisti hanno ucciso: uno senza volerlo, pur infrangendo una regola severa del codice stradale; l’altro deliberatamente, più volte e in nome di una ideologia assassina; il primo prendendo piena coscienza di un errore che, insieme alla vita della sua ignara vittima, stava travolgendo anche la propria e decidendo all’istante di autopunirsi con la medesima pena; il secondo senza aver mai manifestato, in trentasei anni di fuga dalla giustizia, un solo istante di pentimento.
Si dirà: cosa accomuna i due protagonisti di fatti tanto tragici quanto diversi? Questo ragionamento: se il giovane Flavio si fosse consegnato alla polizia proprio in virtù dell’urgenza di espiazione (purtroppo incontrollata: ma chi può sapere cosa passa per il cervello di uomo in quelle condizioni?) che deve aver provato, ne avrebbe pagato le conseguenze con una sicura condanna resa ancora più pesante dalle ultime modifiche al codice penale di fronte a reati stradali. Quindici o vent’anni non glieli avrebbe tolti probabilmente nessuno. E chissà se Renato Farina avrebbe preso le sue difese. Per il terrorista Battisti, che nemmeno dopo la cattura ha saputo rivolgere una sola parola di pietà ai famigliari delle sue vittime innocenti, si invoca invece un atto di clemenza (la probabile richiesta di usufruire della legislazione “premiale”) perché “è un uomo, pentito o no non possiamo avere la pretesa si saperlo”.
No, caro Farina, il pentimento è condizione sine qua non per qualsiasi decisione successiva. Tanto è vero che il sacerdote chiede al peccatore proprio il pentimento dei peccati come condizione essenziale perché gli siano rimessi. Altrimenti tanto vale non confessarsi nemmeno. Così come, in ambito giuridico, tanto varrebbe eliminare ogni tipo di pena detentiva. E lo Stato, che storicamente è sorto allo scopo primario di amministrare la giustizia, potrebbe chiudere i battenti.
Sempre ipotizzando il diverso comportamento cui ho accennato, il giovane milanese se ne sarebbe andato in carcere mentre, secondo Farina, l’assassino Battisti avrebbe potuto usufruire di uscite-premio. Uno stridore che fa a pugni col più elementare senso di giustizia. Lungi da me chiudere per sempre la porta in faccia a Battisti, ma non possono bastare pochi mesi di galera (che, ripeto, egli non ha cercato, ma sfrontatamente fuggito) dopo decenni di latitanza e senza lavorare per cambiar vita. Dimostri anzitutto ai familiari delle sue vittime, barbaramente uccise, che sta prendendo coscienza dei propri errori, lo faccia portando con dignità, stando dietro le sbarre per un periodo congruo, il peso della sua croce e poi lo Stato potrà, anzi affermo proprio che dovrà prendere in esame la sua richiesta. Lo ha fatto altre volte nei riguardi di ergastolani, lo farà anche in questa occasione. Sarebbe in tal modo salvo anche il sacrosanto “diritto di ricominciare” di cui parla il papa.