Ieri il vicepresidente della Banca centrale europea, Luis de Guindos, ha dichiarato in un’intervista a Le Monde che “se le cose si muovono nella stessa direzione delle ultime settimane, allenteremo la nostra politica monetaria restrittiva a giugno. Assumendo che non ci siano sorprese tra adesso e quel momento, è un fatto scontato”. Due giorni fa il Financial Times faceva notare ai propri lettori che gli investitori stavano aumentando le scommesse su un ulteriore rialzo dei tassi della Federal Reserve; un’ipotesi ritenuta impensabile solo qualche mese fa. Il mercato delle opzioni prezza una probabilità del 20% che la Fed possa alzare i tassi nei prossimi dodici mesi.
La divaricazione della politica monetaria americana ed europea riflette condizioni economiche diverse; negli Stati Uniti la crescita è più forte, il mercato del lavoro migliore e l’inflazione rimane sopra l’obiettivo del 2%. In Europa, invece, l’economia rallenta e i prezzi sono scesi più velocemente. Da queste premesse sembrerebbe inevitabile che la Vanca centrale europea anticipi un cambio di politica monetaria rispetto alla Fed o perfino che le politiche monetarie proseguano su percorsi diversi.
Se questo è lo scenario il rischio per la Banca centrale europea è assistere a un processo di rafforzamento del dollaro e indebolimento dell’euro difficile da fermare. È un rischio perché, non avendo l’Europa materie prime, ciò significherebbe importare inflazione, per esempio, subendo un rincaro dei prezzi della benzina e del gas. Le pressioni politiche per un taglio dei tassi che faccia diminuire il costo dei prestiti si trasformerebbero in pressioni politiche per far rientrare i prezzi di benzina o gas. L’indebolimento dell’euro aiuterebbe le esportazioni, ma questo fenomeno si produrrebbe in uno scenario geopolitico molto diverso da quello degli ultimi trent’anni. Dopo tre decenni di mercato del compratore sulle principali materie prime oggi siamo in un mercato del venditore e molti Governi, incluso quello americano, hanno agito o si apprestano a farlo per evitare che i prezzi internazionali di questo o di quel bene determinino rincari sul mercato domestico.
Al culmine della crisi energetica del 2022 gli Stati Uniti valutavano blocchi delle esportazioni di gas. Un numero crescente di Governi, incluso quello americano, considera i dazi come strumento di competizione. Un euro svalutato attirerebbero le ire dei principali partner commerciali dell’Unione europea che non sembrano più disposti ad accettare deficit commerciali. Nel nuovo mondo della deglobalizzazione una valuta forte è un asset più prezioso che nel vecchio.
Ieri Jamie Dimon, ad di Jp Morgan, all'”Economic Club of New York” ha spiegato che il boom economico americano è “incredibile” e che “anche se andiamo in recessione, il consumatore è in buona forma”. L’economia americana è sostenuta da deficit che rimangono sensibilmente superiori a qualsiasi altra fase economica che non fosse di guerra e da condizioni finanziarie che rimangono favorevoli come dimostra l’andamento dei mercati. Gli Stati Uniti hanno la valuta di riserva, sono esportatori netti di petrolio e i maggiori esportatori di gas del mondo e dal punto di vista geopolitico sono infinitamente più solidi dell’Unione europea che non può mettere in campo neanche l’ombra dell’esercito americano. L’America si può permettere politiche fiscali impossibili per l’Europa. L’inflazione creata a New York arriva nel resto del mondo e in Europa investe una controparte particolarmente fragile sia per i danni che si sono prodotti con la fine dell’accesso al gas russo sia perché l’Europa non ha materie prime.
L’Europa è quindi costretta a tenere duro su tassi che non vorrebbe avere sacrificando la crescita. Nell’ambito della collaborazione con gli alleati l’Europa avrebbe ogni interesse a convincere i partner americani a scalare le marce degli stimoli fiscali. Diversamente il rischio per l’Ue è quello di chiudere il problema dei tassi e aprire quello dell’inflazione e, soprattutto, del cambio che però è molto più difficile da chiudere.
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