La scorsa settimana si è chiusa con alcune buone notizie come la brusca discesa dell’inflazione. Quella che si apre fa trattenere il fiato. Giovedì prossimo, Sant’Ambrogio, si riunisce l’Ecofin per sbloccare l’impasse sulla riforma del Patto di stabilità. Le posizioni sono ancora distanti. Il tempo stringe, lunedì 11 c’è l’assemblea plenaria del Parlamento europeo e la Spagna, presidente di turno del Consiglio, vuole portare una riforma ben confezionata. Poi giovedì 14 si tiene l’ultimo meeting dell’anno per la Banca centrale europea che dovrà decidere se fermare l’escalation dei tassi ufficiali d’interesse. È facile capire quanto questi appuntamenti siano importanti per tutti, ma in particolar modo per l’Italia.
Nei giorni scorsi alla commissione Affari economici del Parlamento europeo, alcuni esponenti del Partito popolare hanno messo sul tavolo un taglio annuo del debito pari all’1,5%, al quale i socialisti hanno contrapposto un forchetta minima che va dallo 0,1% allo 0,5%. Ma il rischio non è affatto scongiurato nemmeno nel Consiglio europeo. Per il calo del debito previsto dai piani di spesa dei Paesi più indebitati, nei quattro anni successivi al completamento dell’aggiustamento del deficit, si ipotizza ancora una quota tra l’1% e l’1,5% del Pil. Si parla invece di 1-2% per il margine di salvaguardia sul deficit, l’obiettivo al quale puntare per il disavanzo una volta che uno Stato ha completato l’aggiustamento e il debito è su una curva discendente o rimane a livelli prudenti.
Sembra sostanzialmente passata, scrive l’Ansa, la regola che prevede per i Paesi in extra-deficit un aggiustamento di bilancio automatico dello 0,5% del Pil annuo fino a quando il disavanzo non rientri entro il 3% del Pil. Restano ancora fumose le ipotesi sulla soglia di scostamento che sarà tollerata per i piani di spesa a 4-7 anni, che verranno concordati con l’Ue dagli Stati membri e per i quali la riforma introdurrà il meccanismo del “conto di controllo” segnando di anno in anno di quanto la spesa netta effettiva (cioè senza gli interessi sul debito, la cassa integrazione e le entrate discrezionali) sia superiore o inferiore al previsto. L’idea è che il saldo annuale tra crediti e debiti registrati dal conto di controllo di un Paese non superi una data quota del Pil, nel qual caso scatterebbe una procedura d’infrazione. La flessibilità, chiave di volta delle riforma presentata da Paolo Gentiloni, sta cedendo il passo via via a una nuova rigidità?
Se poi alla Bce prevalessero i falchi, sull’Italia il prossimo anno si stringerebbe un corsetto soffocante. Pur nella sua autonomia la banca centrale dovrebbe apprezzare un’intesa sul Patto di stabilità soprattutto perché accoppiato alla vera novità di novembre: la riduzione decisa dell’inflazione. Il dato mensile vede un incremento di appena mezzo punto che porta il dato su base annua al 2,4%, se continua così il mitico obiettivo del 2% sarà centrato ben prima di quanto ci si potesse aspettare.
Christine Lagarde non canta ancora vittoria, ma gongola. Dopo tutte le critiche che le sono piovute addosso, soprattutto quella di aver agito troppo tardi e troppo in fretta, potrà dire che i prezzi si sono raffreddati senza arrivare a una recessione, con l’eccezione della Germania che, però, a questo punto fa caso a sé. Speriamo che Madame la présidente abbia ragione, certo è che la frenata del Pil in Europa è brusca, tanto più se paragonata agli Stati Uniti dove continua una crescita superiore a tutte le previsioni. Nemmeno la Federal Reserve se lo aspettava: nel terzo trimestre il Pil ha segnato un +5,2% la maggiore dopo lo stesso periodo del 2021 quando è cominciata la ripresa post-pandemia. Jerome Powell potrebbe vantare il suo tempismo, aver agito subito ha consentito di ammortizzare lo choc, in realtà sembra preoccupato perché si creano troppi posti di lavoro, i salari continuano ad aumentare e l’inflazione si raffredda, ma resta ancora oltre il 3%. In ogni caso, è ormai evidente che tra le due sponde dell’Atlantico si è aperta una forbice economica, s’è creato un disallineamento della congiuntura.
Vedremo che cosa deciderà la Bce. Fabio Panetta, Governatore della Banca d’Italia, ha insistito con il suo mantra: attenti a non provocare “una brusca contrazione dopo quella già rapida dei mesi scorsi”. Dunque, niente rialzi, anzi “la trasmissione degli impulsi monetari alle condizioni di finanziamento si sta rivelando più forte del previsto”. In ogni caso, anche senza nuovi incrementi, il costo del denaro resta con una base del 4,5%, la più alta dal 15 maggio 2000, destinata a non scendere “per un periodo sufficientemente lungo” secondo Christine Lagarde. Maneggiare con cura, soprattutto la gestione dei titoli pubblici acquistati negli anni scorsi che dovrebbero essere reinvestiti, vendendo quelli in scadenza. Un improvviso sussulto restrittivo sarebbe un guaio soprattutto per l’Italia (a dicembre dello scorso anno i Btp nel forziere di Francoforte ammontavano a quasi 700 miliardi di euro, pari a un quarto del debito italiano).
E torniamo così alle regole di Maastricht. Come si può pensare che chiuso l’ombrello della Bce sui titoli e con una economia che cresce meno di un punto percentuale, l’Italia possa ridurre il rapporto tra debito e Pil? Non è forse nell’interesse anche della stabilità che la politica monetaria e quella di bilancio favoriscano e non soffochino la crescita? È una domanda retorica, ma non ha ancora ricevuto risposta.
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