Negli ultimi giorni sono arrivati messaggi importanti da due esponenti di spicco della Bce. Il vicepresidente Luis De Guindos, infatti, ha detto non solo che i tassi continueranno ad aumentare “fino a un livello che garantisca che l’inflazione ritorni in linea” con la stabilità dei prezzi, ma ha anche spiegato che l’anno prossimo verrà avviato il Quantitative tightening, ovvero la cessazione di acquisti netti dei titoli detenuti dalla Bce se non addirittura la graduale dismissione delle consistente già detenute nel portafoglio. “Dal mio punto di vista potremmo iniziare non reinvestendo nei i titoli in scadenza in portafoglio”, ha aggiunto. Fabio Panetta, membro del Consiglio direttivo, ha invece sì evidenziato che “la politica monetaria deve essere inasprita per garantire che l’inflazione non diventi radicata”, ma ha anche avvertito che “alla luce dei progressi già ottenuti nell’adeguamento della nostra posizione [di] politica [monetaria], un inasprimento aggressivo non è consigliabile”. Anche perché “le conseguenze di possibili errori potrebbero non essere percepibili oggi, ma diventerebbero evidenti nel tempo. Potrebbe quindi essere troppo tardi per invertirli completamente”. Cosa dobbiamo, quindi, aspettarci nelle prossime settimane da parte dell’Eurotower? Abbiamo cercato di capirlo insieme a Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale.
Le dichiarazioni di De Guindos e Panetta sembrano essere di segno opposto. Può aiutarci a capire come mai?
Sono dichiarazioni che riflettono una discussione articolata che sta avvenendo nel Consiglio direttivo della Bce. È naturale, infatti, che ci siano posizioni diverse su come gestire l’impennata inflazionistica e la normalizzazione della politica monetaria. Anche all’interno della Fed vi sono posizioni almeno altrettanto articolate. La vicepresidente Lael Brainard, infatti, da diverso tempo sostiene l’opportunità di rallentare il ritmo di inasprimento della politica monetaria: non si tratta di una posizione dovish, ma semplicemente di un atteggiamento improntato alla prudenza e volto a valutare appropriatamente gli impatti dei rialzi effettuati finora.
Lo stesso atteggiamento espresso da Panetta?
Ritengo di sì. Alla luce soprattutto delle ultime previsioni economiche che la Commissione europea ha divulgato la scorsa settimana, secondo cui nel migliore dei casi vi sarà crescita stagnante nell’Eurozona per tutto il 2023, Panetta esprime una posizione improntata alla prudenza e alla cautela, volta a verificare gli effetti degli aumenti dei tassi approvati negli ultimi mesi. Tra l’altro, come sappiamo, questi rialzi necessitano di tempo per generare appieno gli effetti per i quali vengono applicati.
Al momento sembra che non li abbiano avuti, visto che l’inflazione continua a crescere…
È vero che l’inflazione è in aumento, tuttavia va ricordato che sui dati di ottobre pesa in modo straordinariamente importante la componente energetica, che non è però sotto controllo della politica monetaria: è una variabile esogena importata, per così dire, dalla crisi geopolitica. Peraltro su questa componente del paniere c’è da rilevare che l’abbassamento dei prezzi all’ingrosso non si è ancora traslato su quelli al dettaglio, ed è ragionevole ipotizzare che ciò avvenga nei prossimi mesi.
De Guindos ha parlato di avvio del Qt nel 2023. Cosa ne pensa?
È un aspetto su cui essere ancora più cauti, perché l’Eurozona è un’unione monetaria, non è un’economia integrata e federale come gli Stati Uniti. Quindi, c’è un enorme spazio per la speculazione che poco ha a che fare con quelle che sono le dinamiche sottostanti a ciascuna economia. E questo tema è importante soprattutto per l’Italia.
Come mai?
A ottobre l’Italia è stato il maggior beneficiario del programma non convenzionale di acquisto di titoli di stato, il Pspp, facente parte dell’App. Complessivamente, dalla sua introduzione gli acquisti netti a favore del nostro Paese sono stati pari a circa 450 miliardi di euro, corrispondenti a poco meno di un quarto del Pil: una cifra davvero significativa. Non bisogna, poi, dimenticare i circa 290 miliardi di titoli di stato italiani acquistati dalla Bce nell’ambito del Pepp. Considerati gli ammontari di cui stiamo parlando, anche la semplice cessazione del reinveistimento dei bond che giungono a scadenza avrebbe un effetto particolarmente significativo sui mercati dei titoli di stato.
De Guindos è sempre stato annoverato tra le colombe. Come mai ora mostra un atteggiamento poco prudente?
Probabilmente ritiene che nel Consiglio direttivo si sia consolidata una maggioranza a favore di un atteggiamento più intransigente nella normalizzazione della politica monetaria, peraltro superficialmente giustificato dall’ultimo dato sull’inflazione pubblicato da Eurostat, che registra per ottobre un rialzo su base annua del 10,7%. Per i Paesi che tradizionalmente invocano politiche monetarie particolarmente restrittive, l’inflazione registrata non solo è stata alta, ma addirittura superiore alla media dell’Eurozona: Germania +11,6%, Austria +11,5% e Olanda +16,8%. Le banche centrali di questi Paesi invocheranno sicuramente una maggiore stretta monetaria. Io ritengo che alla luce di una dinamica inflazionistica fondamentalmente esogena e delle previsioni economiche che prefigurano un rallentamento a breve, se non addirittura una recessione, andrebbe adottato un atteggiamento di maggiore prudenza, sia pure limitata nel tempo, teso a verificare gli effetti delle recenti decisioni per meglio calibrare le misure successive. Anche perché la cessazione delle politiche di reinvestimento dei titoli avrebbe conseguenze altamente asimmetriche, altamente penalizzanti per l’Italia, già esposta in misura significativa alla crisi geopolitica ed energetica.
Il reinvestimento dei titoli è fondamentale per qualche altro Paese, oltre che per l’Italia?
In realtà, l’Italia è l’unico Paese per cui è così importante, non solo per la dimensione relativa del debito pubblico rispetto al Pil, ma anche per il suo stock assoluto che è particolarmente significativo. Questo è un elemento che pone l’Italia in una situazione di debolezza strutturale rispetto agli altri membri dell’Eurozona. L’Italia è un’economia sistemica dell’Eurozona, quindi anche il suo debito lo è.
Quindi, qualsiasi questione riguardante il debito italiano mette anche a rischio la tenuta dell’Eurozona.
Esattamente. Questo spiega il desiderio di mettere sotto pressione, di disciplinare fiscalmente l’Italia, che sta vivendo un momento particolarmente complesso, vista la sua particolare esposizione alla crisi energetica e geopolitica. L’obiettivo della stabilizzazione fiscale nel medio-lungo periodo rimane centrale, ma occorre anche saper navigare le incertezze del momento, altrimenti se si comprimono le aspettative sul Pil il rischio è paradossalmente di ottenere l’effetto opposto sulla dinamica debito/Pil, come già è accaduto in passato. Occorre, pertanto, gestire questo aspetto con cautela e non semplicemente sulla base di un libro di testo.
Manca un mese alla riunione del Consiglio direttivo della Bce, che cosa può determinare in un senso o in un altro le decisioni che verranno prese?
I dati cui la Bce è particolarmente sensibile sono anzitutto le aspettative di inflazione relative alla fine del prossimo triennio. Le ultime previsioni di settembre parlano di un’inflazione superiore al target del 2%, ma solo marginalmente. Non si può, quindi, dire che siano aspettative disancorate. A dicembre dovremmo verificare, con le nuove previsioni che verranno diffuse dall’Eurotower, se rimangono ancorate. Se, invece, non lo fossero, ciò imporrebbe la fine di ogni discussione all’interno del Consiglio direttivo, che potrebbe optare per un maggior drenaggio di liquidità e un ulteriore, significativo inasprimento nel rialzo dei tassi.
Prima della riunione arriverà il dato sull’inflazione di novembre. Quanto potrà influire sulle decisioni del Consiglio direttivo?
Chiaramente avrà un peso soprattutto psicologico, forse superiore alla sua effettiva importanza. Il dato di ottobre è stato particolarmente elevato e se quello di novembre non se ne discostasse significativamente, darebbe un impulso soprattutto di carattere psicologico ed emotivo a coloro che nel Consiglio direttivo invocano una maggiore restrizione della politica monetaria. Come detto poc’anzi, però, occorre considerare che il dato di ottobre è stato trainato dal comparto dell’energia, esogeno alla dinamica dei prezzi dell’Eurozona. Questo richiama a una valutazione attenta del momento complesso che stiamo vivendo, che non può essere affrontato semplicemente con un manuale di testo alla mano. È chiaro che il solco tra un approccio piuttosto che l’altro sarà dato dalle aspettative di inflazione. Se risultassero disancorate, i margini di manovra si ridurrebbero al lumicino in ragione del chiaro mandato anti-inflazionistico affidato alla Bce. Se, invece, rimanessero ancorate rispetto all’obiettivo di medio termine, si tratterebbe di far valere queste argomentazioni in seno al Consiglio direttivo.
(Lorenzo Torrisi)
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