La scorsa settimana il Consiglio direttivo della Bce ha deciso di mantenere invariati i tre tassi di interesse chiave della politica monetaria. Il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principale e quello sulle operazioni di rifinanziamento marginale e sui depositi restano dunque invariati rispettivamente al 4,50%, 4,75% e 4,00%, valori sui quali erano stati portati sei mesi fa, alla fine del lungo periodo rialzista iniziato a luglio del 2022.
La decisione di non iniziare la riduzione dei tassi era prevista e praticamente nessun addetto ai lavori si aspettava il contrario, tuttavia negli ultimi sei mesi il tasso di crescita dei prezzi al consumo ha subito un notevole rallentamento: a settembre 2023 il tendenziale era ancora al 4,3%, pur se in consistente riduzione dal 5,2% dell’agosto precedente, mentre in ottobre forava la linea del 3% portandosi al 2,9%, valore su cui restava sino a fine anno. In gennaio ha ripreso a diminuire e si è portato al 2,8%. Infine in febbraio al 2,6%. Ma questo valore non coincide ancora col numero magico del 2% a cui la Bce auspica di ritornare in tempi più o meno brevi. Eppure una cosa è avere il tasso Bce al 4,5% con l’inflazione al 4,3% e una cosa profondamente diversa averlo allo stesso livello con l’inflazione quasi dimezzata al 2,6%.
Dal comunicato stampa dell’ultima riunione della Bce si desume che essa sia ben consapevole della discesa dell’inflazione, tanto che la previsione per l’anno in corso è stata rivista al ribasso, in particolare per il diverso apporto svolto dai prezzi del comparto dell’energia, tuttavia il riferimento prevalente appare relativo a valori calcolati in media d’anno oppure basati su tassi tendenziali, nessuno dei quali è in grado di cogliere in maniera tempestiva il cambio di velocità nella crescita dei prezzi.
La nuova stima della Bce prevede, infatti, una crescita dei prezzi al consumo in media d’anno del 2,3% nel 2024, del 2,0% nel 2025 e dell’1,9% nel 2026. Tuttavia, un dato medio del 2,3% nel 2024 quando il dato di inizio anno è stato del 2,8% richiede che quello finale si attesti all’1,8% nell’ipotesi più semplice di una riduzione uniforme nel tempo. Ma questo implica che in un qualche momento nei prossimi mesi l’obiettivo del 2% venga finalmente raggiunto e a quel punto non vi è più ragione che i tassi non siano fatti scendere. Tuttavia, la Bce non ha indicato in quale mese prevede che il 2% sia raggiunto e a partire dal quale è ragionevole una riduzione dei tassi. A mio avviso avrebbe potuto farlo, riducendo l’incertezza degli operatori economici.
Una considerazione ulteriore riguarda il fatto che lo scorso anno i tassi mensili più elevati di crescita dei prezzi furono in marzo e aprile, rispettivamente 0,9% e 0,6%, mentre nei mesi seguenti si rivelarono più moderati e in qualche occasione negativi. In conseguenza gli spazi maggiori di riduzione del tendenziale d’inflazione sono proprio in questo mese e nel prossimo. Ma se il tendenziale arriva al 2% o meno già in aprile allora la stima in media d’anno della Bce appare eccessiva. E in questo caso cosa succede ai tassi? Una maggiore trasparenza sulle intenzioni future sarebbe auspicabile.
Un’ipotesi interpretativa è che la Bce non guardi solo e principalmente al tasso generale d’inflazione ma anche, o soprattutto, all’inflazione “core”, al netto delle componenti relative all’energia e agli alimentari. In questo caso le previsioni, pur ridimensionate, restano più alte del 2%: il 2,6% in media d’anno per il 2024, il 2,1% per il 2025 e finalmente il 2,0% per il 2026. Tuttavia, se l’obiettivo della Bce è il 2% sull’inflazione “core” e non su quella generale dovrebbe renderlo esplicito. Inoltre, l’inflazione “core” è stata spinta in alto anch’essa dai prezzi energetici, i quali entrano come costi di produzione in tutti i processi produttivi. Una volta esauritasi la spinta dei primi anche i secondi non possono che rallentare, ma gli occorrerà più tempo.
Ipotesi ulteriore è che la Bce dia particolare rilevanza alle dinamiche salariali. Si legge infatti nel comunicato stampa: “Sebbene la maggior parte delle misure dell’inflazione di fondo si siano ulteriormente allentate, le pressioni interne sui prezzi rimangono elevate, in parte a causa della forte crescita dei salari”. Ma i salari non stanno crescendo in maniera uniforme nei diversi Paesi e in alcuni, tra cui l’Italia, sono quasi fermi e hanno recuperato una frazione minima del potere d’acquisto perso con l’inflazione del 2022-23. E anche qualora i salari siano effettivamente in crescita occorre chiederci perché essa si verifichi. Le cause possono essere due, molto differenti:
– le imprese hanno accettato di ripartire in favore dei lavoratori una parte del maggior valore aggiunto che è stato reso possibile nell’ultimo biennio grazie alla crescita dei prezzi;
– le imprese hanno accettato di anticipare ai lavoratori incrementi salariali, finanziandoli non con margini attuali o recenti, ma contando di farlo con aumenti futuri dei prezzi.
Solo nella seconda ipotesi gli aumenti salariali sono fonte di inflazione futura, mentre nella prima sono solo l’esito dell’inflazione passata. Tuttavia, affinché sia vera l’ipotesi “inflativa”, la prima, a cui la Bce sembra credere, occorre un elevato potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori in Europa di cui però non vi è traccia nei resoconti della stampa economica e generalista.
Poiché non vi è stato alcun autunno caldo siamo portati a credere che la Bce, nel momento in cui l’inflazione al consumo sta finalmente per tagliare il traguardo del 2%, stia guardando ad altre misure dell’incremento dei prezzi, meno favorevoli, così da giustificare la sua propensione a non abbassare i tassi. Non sarebbero dunque i dati a orientare la politica monetaria, bensì la politica monetaria “a priori” della Bce a orientare i dati che più possono giustificarla.
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