La Bce ha compiuto un importante secondo passo nella riduzione del costo del denaro, ma lo ha fatto in maniera mascherata, quasi occultandolo nel suo comunicato stampa dell’altro ieri. Esso inizia con la seguente affermazione: “Il Consiglio direttivo ha deciso oggi di ridurre di 25 punti base il tasso di interesse sui depositi presso la banca centrale, tasso mediante il quale orienta la politica monetaria”.



Leggendo questo, magari in un breve richiamo di agenzia di stampa, il lettore frettoloso, compreso quello specialistico, interpreta che la riduzione sia di un quarto di punto e dunque della stessa ampiezza di quella decisa nello scorso giugno, che fu la prima dopo quasi due anni dall’inizio della fase di rialzo dei tassi europei e della politica monetaria restrittiva. Ma in realtà non è così perché i due ribassi non sono riferibili allo stesso tasso… Il comunicato della Bce ha teso una piccola trappola ai lettori, forse per suggerire ai professori di economia monetaria di chiedere ai loro studenti nel prossimo esame di interpretare proprio questa frase, per vedere se effettivamente sono preparati…



È vero infatti che “il tasso d’interesse sui depositi” presso la Bce orienta la politica monetaria, tuttavia esso è un interesse passivo per la Bce e attivo per le banche che decidono di depositare la loro liquidità presso la Banca centrale anziché prestarla alla loro clientela commerciale. Ed è anche vero che esso è stato ridotto per la seconda volta di un quarto di punto, dato che prima di giugno scorso era al 4%, poi al 3,75% e ora al 3,5%.

Questo tasso è importante perché scoraggia le banche ordinarie dal prestare soldi a un tasso più basso dato che possono ottenere questo valore depositando presso la Banca centrale. Tuttavia sino a pochi giorni fa abbiamo sempre assegnato il ruolo di tasso chiave al “tasso di rifinanziamento principale” che è invece quello al quale le banche ordinarie possono chiedere soldi in prestito alla Bce per un breve periodo, dunque tasso passivo per le banche e attivo per la Bce. Ora questo tasso è stato appena abbassato di 0,6 punti percentuali e portato dal 4,25% di giugno al 3,65% attuale. Però la Bce non lo ha scritto… Ha invece condotto il lettore per quasi tutto il resto del comunicato in una lunga disamina sulle attese relative all’inflazione e solo alla fine del medesimo ha svelato il mistero, come in ogni buon giallo che si comandi: “Come annunciato lo scorso 13 marzo (ma non se lo ricordava nessuno…), saranno introdotte alcune modifiche all’assetto operativo per l’attuazione della politica monetaria a partire dal 18 settembre. In particolare, il differenziale tra il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali e il tasso sui depositi presso la banca centrale sarà fissato a 15 punti base. Il differenziale tra il tasso sulle operazioni di rifinanziamento marginali e quello sulle operazioni di rifinanziamento principali rimarrà invariato a 25 punti base”.



Questo vuol dire che il tasso chiave diventa ora quello passivo per la Bce sui depositi volontari delle banche ordinarie, ma quello attivo, a carico delle banche ordinarie che chiedono finanziamenti, si ottiene d’ora innanzi aggiungendovi solo 15 punti base mentre sinora erano stati 50, cioè mezzo punto. I 35 punti basi di differenza tra i due valori vanno dunque a ridurre ulteriormente il tasso di rifinanziamento principale e si sommano ai 25 di riduzione del tasso sui depositi, per una riduzione complessiva di 60 punti base, dunque dello 0,6% del tasso a carico dei finanziamenti delle banche ordinarie, il quale si attesta ora al 3,65% contro il precedente 4,25% e il 4,5% in vigore sino a maggio scorso.

La nuova riduzione non è trascurabile e non è piccola, anche se ancora insufficiente rispetto al grande calo dell’inflazione che si verificato da quasi un anno a questa parte. Ma non si può chiedere alla Bce di far tutto in un colpo solo. Le sue scelte dei prossimi mesi saranno decisive per le prospettive di ripresa delle economie europee. Avrà la Bce il coraggio di proseguire nella riduzione? Al momento appare legittimo avere dubbi.

Da un lato, infatti, è condivisibile la valutazione della Bce a giustificazione della riduzione avvenuta: “Sulla base della sua valutazione aggiornata delle prospettive di inflazione, della dinamica dell’inflazione di fondo e dell’intensità della trasmissione della politica monetaria, è ora opportuno compiere un altro passo nella moderazione del grado di restrizione della politica monetaria”. È invece meno condivisibile l’analisi prospettica sulle tendenze dell’inflazione:

– la Bce sembra passata dal basarsi in maniera eccessiva sul tasso tendenziale, che misura quanto i prezzi sono cresciuti in un arco complessivo di ben 12 mesi, addirittura al tasso medio annuale, che di mesi per il calcolo ne richiede 24: “I dati recenti sull’inflazione rispecchiano sostanzialmente le attese, e le ultime proiezioni degli esperti della Bce confermano le prospettive di inflazione precedenti. Secondo gli esperti l’inflazione complessiva si collocherebbe in media al 2,5% nel 2024, al 2,2% nel 2025 e all’1,9% nel 2026, come nelle proiezioni di giugno”. Ma il tasso medio annuale presenta un interesse assolutamente limitato se si vuole misurare la velocità di crescita dei prezzi, che è quella corrente…

– La Bce si aspetta che l’inflazione torni ad aumentare nell’ultima parte di quest’anno per il venir meno del contributo dei ribassi energetici. Può essere, ma il fenomeno non può riguardare l’inflazione di fondo, che esclude proprio gli energetici e viene ritenuta di interesse ancora maggiore dell’inflazione globale.

– E invece anche l’inflazione di fondo è stata rivista lievemente al rialzo per il prossimo biennio per i rincari in corso, maggiori del previsto, dei servizi. Tuttavia alcuni di essi, come trasporti, ristorazione e alloggi, sono in crescita per dinamiche relative alla domanda, migliori del previsto forse più per effetti ulteriori di recupero post-Covid che non per aumento del potere d’acquisto delle famiglie, il quale si vedrebbe invece su molti più comparti.

– La Bce ritiene che l’inflazione interna resti relativamente elevata “in quanto i salari continuano a crescere a un ritmo sostenuto”. Ma i salari sono cresciuti perché le imprese hanno accettato di dividere coi lavoratori almeno in parte i loro maggiori margini oppure per un crescente potere delle organizzazioni sindacali che eroderebbe i loro profitti? Solo nella seconda ipotesi dovremmo attenderci che le imprese cerchino di recuperarli aumentando i prezzi. Tutti i dati non raccontano questa storia.

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