Fabio Panetta, membro del Comitato esecutivo della Bce, giovedì ha dichiarato che la Bce nel contrasto all’inflazione non deve “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte”. Per Panetta “attenuando i nostri rialzi dei tassi, muovendoci a piccoli passi, possiamo assicurarci di calibrare” la politica monetaria. Panetta sembra voler avvertire la banca centrale da un rialzo eccessivo dei tassi nel breve termine.
Queste dichiarazioni arrivano in una fase particolare per i mercati e l’economia. I mercati e gli investitori sono entrati nel 2023 scommettendo su uno scenario di rallentamento economico e, contemporaneamente, sulla fine imminente delle politiche restrittive delle banche centrali. I dati delle ultime settimane stanno facendo venire meno questo scenario e questo costringe tutti gli attori, incluse le banche centrali, a cambiare prospettiva. L’inflazione non sta scendendo come si sperava e anzi rischia di ripartire, sia perché l’economia non sta andando male come si prospettava, sia perché il mercato del lavoro rimane “tirato”.
Le evidenze sulla forza del mercato del lavoro si moltiplicano, con i lavoratori di molti settori che riescono a strappare significativi aumenti salariali eventualmente anche dimettendosi per accettare offerte più remunerative. È un fenomeno che ha le sue radici nel numero eccezionale di uscite dal mercato del lavoro del 2020 e del 2021. Moltissimi, avendone la possibilità, hanno scelto di andare in pensione; le imprese hanno colto le opportunità offerta da politiche fiscali generose per liberarsi dei dipendenti più anziani. La ripartenza arrivata improvvisamente in un contesto monetario e fiscale ultra espansivo ha determinato lo scenario attuale.
Le condizioni finanziarie sono ancora favorevoli, i risparmi accumulati durante i lockdown non si sono ancora prosciugati; infine è ripartito un massiccio ciclo di investimenti, soprattutto negli Stati Uniti ma non solo, spinto dalla ristrutturazione delle catene di fornitura globale. Gli ultimi dati sui consumi americani non consegnano affatto uno scenario di crisi. In questo quadro le banche centrali rischiano di trovarsi alle prese con una ripartenza dell’inflazione e quindi dovranno alzare ulteriormente i tassi. Alla fine di questo percorso arriverà il rallentamento o la crisi, ma questo epilogo è rimandato.
L’Europa è un sistema fragile per due ordini di motivi. Il primo è la storica frammentazione tra Paesi membri, che hanno economie e debiti molto diversi. Il secondo è che la migliore, e forse unica, medicina per l’inflazione di oggi è avere energia abbondante ed economica. Questa è la premessa per difendere e ampliare la produzione industriale, che significa avere buoni salari e alla fine, tramite l’incremento della disponibilità di beni, anche stabilità dei prezzi. L’Europa invece spinge per fonti energetiche strutturalmente scarse e costose. Non importa che ci sia una pala eolica su ogni collina se non c’è vento e non importa che ci sia un pannello solare su ogni balcone se piove. Il costo della non programmabilità delle rinnovabili è colossale.
Per questo l’incremento dei tassi per combattere una seconda ondata di inflazione fa particolarmente male all’Europa e ancora di più ai suoi membri più fragili, che non hanno o non possono avere spazio fiscale e che non si possono permettere di sussidiare per decine di miliardi di euro all’anno cittadini e imprese per schermarli dai costi energetici impazziti. Settimana scorsa il primo ministro indiano Modi, a capo di un Paese che sta diventando il principale beneficiario industriale della guerra commerciale con la Cina, ha dichiarato che la domanda di gas aumenterà di cinque volte e quella di petrolio di più del doppio. L’India in questo piano può contare sulle forniture economiche russe. La risposta europea a questa sfida è trovare fonti energetiche economiche, altrimenti l’unica alternativa è trincerarsi dietro a dazi commerciali “green” mentre il continente declina e i suoi cittadini si impoveriscono.
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