Da quando esistono le Banche centrali il loro principale compito è quello di preservare il valore, e dunque il potere d’acquisto, della moneta che esse emettono. In quest’ottica il loro principale nemico è l’inflazione, l’aumento generalizzato dei prezzi il quale rappresenta specularmente la perdita di valore della moneta nazionale rispetto ai beni che con quella moneta sono venduti e acquistati. Poiché i sistemi economici tendono a registrare nel tempo una crescita in termini reali del Pil le Banche centrali dovrebbero assecondare tale incremento permettendo all’offerta di moneta di crescere nella stessa misura del Pil reale, così da permettere ai maggiori beni prodotti di essere scambiati, più un delta corrispondente a un tasso normale, fisiologico, di aumento dei prezzi, tradizionalmente fissato nel 2%.



Se l’inflazione tende a superare tale livello le Banche centrali si allarmano e valutano se attuare politiche monetarie restrittive, così da frenare la crescita dell’offerta di moneta e con essa ricondurre a più miti dinamiche la corsa dei prezzi. Ma possono le Banche centrali disinteressarsi della crescita economica? Possono avere come unico obiettivo l’abbattimento dell’inflazione anche quando esso si rivelasse molto costoso in termini di crescita economica a cui si deve rinunciare per ottenerlo?



Il quesito è di elevato interesse, ma per quasi tutto il primo quarantennio di esistenza della macroeconomia, la cui data di nascita possiamo fissare alla pubblicazione nel 1936 dell’opera fondamentale di Keynes, la “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta”, ha potuto non essere posto. Infatti, l’inflazione si manifestava nella fasi positive del ciclo economico, quando la crescita correva troppo e dunque era ragionevole usare il pedale del freno. Invece, nelle fasi negative del ciclo il male macroeconomico diveniva la recessione, col suo corollario della disoccupazione, ma l’inflazione, in conseguenza della bassa domanda aggregata, si dissolveva e dunque giustificava di usare l’acceleratore, anche quello monetario. Non vi erano pertanto costi recessivi della disinflazione perché quando c’era l’inflazione non c’era la recessione e viceversa.



Ma dagli anni ’70 degli shock petroliferi in avanti ci siamo abituati alla presenza simultanea di inflazione e recessione, prodotte entrambe dal lato della produzione di beni, dell’offerta, divenuta più costosa, e non più dal lato della domanda. L’abbiamo chiamata stagflazione, due mali siamesi di fronte ai quali le politiche della domanda, sia fiscale che monetaria, sono rimedi spuntati. Infatti, se si usano in senso restrittivo riducono l’inflazione ma accrescono la recessione mentre se si usano in senso espansivo attenuano la recessione ma accrescono l’inflazione. Lo shock inflattivo infiammato dal gas russo già nella seconda parte del 2021, prima addirittura dell’invasione dell’Ucraina, è esattamente di questo tipo, accresce i costi di produzione e genera sia inflazione che rallentamento dell’economia.

In questi casi le Banche centrali non possono ignorare i costi recessivi delle politiche disinflattive da esse condotte. La Bce purtroppo lo ha fatto. Ha iniziato ad aumentare i tassi, che erano al livello zero, a metà del 2022, quando l’inflazione stava per superare il tendenziale del 10% e in dieci aumenti consecutivi e in soli quattordici mesi li ha portati al 4,5% nonostante in quello stesso periodo l’inflazione si fosse dimezzata, per poi ridursi a un solo quarto nel tempo trascorso da allora.

Ma l’inflazione si è ridotta in pochissimi mesi a causa degli alti tassi Bce oppure perché i prezzi del gas e del petrolio dopo essere esplosi sono ritornati rapidamente ai loro livelli iniziali? Se fosse vera la prima ipotesi saremmo di fronte a una clamorosa smentita di tutti gli studi sui tempi lunghi e incerti degli effetti della politica monetaria, addirittura saremmo passati da effetti in tempi lunghi e incerti d effetti pressoché istantanei… Bisognerebbe allora dare il Nobel dell’economia al board della Bce.

Mentre questa nostra critica alla Bce l’abbiamo formulata diverse volte, una seconda e nuova critica alla Bce è la seguente: visto che la Banca centrale ha come unico obiettivo il controllo dell’inflazione e si disinteressa di costi recessivi della disinflazione, almeno il fenomeno inflattivo dovrebbe essere in grado di capirlo, di dominarlo e soprattutto di prevederlo. Abbiamo dunque letto con stupore una recente intervista del Governatore Lagarde a un pool di giornali economici europei in cui ha dichiarato in sintesi di non sapere cosa accadrà all’inflazione nell’immediato futuro, se continuerà a ridursi, starà ferma oppure cambierà di direzione, e in conseguenza la Bce aspetta di vedere come si comporterà l’inflazione per decidere se proseguire o meno nel calo dei tassi d’interesse, avviato molto timidamente nell’ultima riunione.

Un simile atteggiamento accresce l’incertezza macroeconomica anziché, come dovrebbe, ridurla. Un banchiere centrale non è pagato per aspettare i numeri sull’inflazione, bensì per prevederli e se possibile condizionarli. Dunque la risposta corretta avrebbe dovuto essere: “Noi ci aspettiamo che l’inflazione rientri spontaneamente entro il valore obiettivo, avendo già percorso quasi il 95% della strada del rientro nell’ultimo anno e mezzo, e in maniera conforme ci aspettiamo di proseguire nel percorso di riduzione dei tassi. Ovviamente qualora fossimo smentiti, ma la probabilità è molto ridotta, correggeremo le nostre politiche”.

Questo sarebbe stato un modo molto efficace per influire sulle aspettative d’inflazione degli operatori economici perché se la Bce non sa dove andrà l’inflazione perché dovrebbero saperlo i singoli agenti economici meglio di lei? E se invece la Bce crede che l’inflazione tornerà alla normalità perché non dovrebbero crederci i singoli agenti economici dei Paesi dell’euro? Vi sono quattro sole possibili cause d’inflazione:

– da emissione di moneta in Paesi in cui la Banca centrale è succube delle esigenza di spesa in disavanzo dei Governi, ma non è questo il caso delle Bce, costruita in maniera indipendente dai Governi e impedita sin dall’origine dall’acquistare titoli pubblici al momento della loro emissione;

– da domanda, ma qual è l’ultima volta in cui abbiamo visto un ciclo economico così espansivo da produrre tensioni sui prezzi?

– da costi, e questo è il caso tipico dell’ultimo mezzo secolo; esso genera un’inflazione costosa da ridurre proprio per gli effetti recessivi della cura disinflattiva;

– infine l’inflazione da aspettative d’inflazione…

Quest’ultima non nasce a partire da prezzi stabili, ma di solito si innesta su un’inflazione prodotta in origine da altra causa, ad esempio quella da costi, come sperimentato nel nostro Paese negli anni ’70 e ’80. Quelle sull’inflazione sono aspettative che di solito si autoverificano perché se i sindacati hanno aspettative d’inflazione si comporteranno di conseguenza nei rinnovi dei contratti di lavoro e se i produttori hanno aspettative inflative, sui costi e sui prezzi, inizieranno da subito a ritoccare i listini.

Ma l’inflazione da aspettative è anche quella più facile e meno costosa da rimuovere. Basta convincere che si tratta di una falsa credenza. E chi può rimuoverla convincendo, chi è il pompiere delle aspettative? Ma la Banca centrale, of course…

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