Giornate molto importanti quelle di ieri e mercoledì, al di qua e al di là dell’Atlantico, per le Banche centrali, sincronizzate nelle loro riunioni per decidere gli sviluppi delle rispettive politiche monetarie. Rispettando la cronologia delle loro decisioni, vediamo prima cos’è successo a Washington.
Con grande gioia di Wall Street, che ha subito festeggiato con un rialzo consistente del listino, la Fed degli Stati Uniti ha deciso di lasciare invariati per la terza volta consecutiva i tassi dei Fed Funds in una forbice fra il 5,25% e il 5,50%, che è comunque il livello più elevato dall’inizio del millennio. Ha inoltre indicato nel suo comunicato ufficiale che eventuali rialzi futuri sono poco probabili, trovandosi quelli attuali al loro picco o a esso prossimi in questo ciclo restrittivo.
Ricordiamo che l’economia Usa si trova in una fase espansiva e che i tre trimestri dell’anno sinora trascorso hanno registrato tassi di crescita crescenti in termini reali, l’ultimo dei quali con un +1,3% congiunturale che corrisponde a un +4,9% annualizzato. Tuttavia, secondo la Fed, l’attività economica sarebbe ora in rallentamento e l’inflazione in calo, anche se con un tendenziale ritenuto ancora elevato e con dinamiche future dei prezzi al momento incerte.
L’attesa è comunque di una convergenza più rapida dell’inflazione al livello obiettivo del 2%, conseguibile pienamente in un paio d’anni, ma in gran parte già nel prossimo, a partire dal 2,8% atteso alla fine del presente. Il Pil reale dovrebbe invece chiudere l’anno attuale con un +2,6%, migliore rispetto anche alle penultime previsioni, per poi rallentare all’1,4% nel 2024 e riprendere nel biennio seguente.
L’aspetto di maggior interesse della decisione della Federal reserve e delle connesse dichiarazioni ufficiali è l’attesa, basata sul quadro macroeconomico precedente, di una riduzione più pronunciata dei tassi nel prossimo anno, al 4,5-4,75%, rispetto a quanto ipotizzato nei mesi scorsi (il 5-5,25%, partendo tuttavia da un tetto del 5,5-5,75% che invece non è stato raggiunto). Dunque sono al momento immaginabili tre tagli successivi da un quarto di punto ciascuno nel prossimo anno, con un’ulteriore discesa al 3,5-3,75% entro il 2025 e al 2,75-3% entro l’anno seguente, sino a convergere sul livello di lungo periodo, ritenuto neutrale, del 2,5%.
Attraversiamo ora l’Atlantico e vediamo quanto invece è stato deciso a Francoforte, solo in apparenza simile rispetto agli Usa. Infatti, anche il Consiglio direttivo della Bce ha deciso di mantenere invariati tassi di interesse chiave, di cui quello principale è al 4,5%. Curiose risultano tuttavia le motivazioni addotte, inserite nel comunicato ufficiale: “Sebbene negli ultimi mesi l’inflazione sia scesa, è probabile che nel breve termine riprenda temporaneamente a salire. Secondo le ultime proiezioni degli esperti dell’Eurosistema per l’area dell’euro l’inflazione dovrebbe diminuire gradualmente nel corso del prossimo anno, prima di avvicinarsi all’obiettivo del 2% del Consiglio direttivo nel 2025. Nel complesso, gli esperti si aspettano che l’inflazione complessiva raggiunga una media del 5,4% nel 2023, 2,7% nel 2024, 2,1% nel 2025 e 1,9% nel 2026”.
Non si comprende, infatti, perché l’inflazione, che è in netto rallentamento negli ultimi mesi, ma aveva ridotto in maniera visibile la sua velocità già a partire da novembre 2022, possa improvvisamente cambiare idea e direzione di marcia… Né aiuta il passo successivo del comunicato:”L’inflazione di fondo si è ulteriormente attenuata. Ma le pressioni interne sui prezzi rimangono elevate, principalmente a causa della forte crescita del costo del lavoro per unità di prodotto. Gli esperti dell’Eurosistema prevedono che l’inflazione al netto di energia e alimentari sarà in media del 5,0% nel 2023, del 2,7% nel 2024, del 2,3% nel 2025 e del 2,1% nel 2026″.
Qui vi sono due palesi debolezze esplicative, se non veri e propri errori interpretativi:
– Il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) è cresciuto a causa degli aumenti salariali al numeratore, certo non avvenuti in maniera uniforme nei diversi Paesi, oppure per il calo del prodotto al denominatore, dovuto al rallentamento delle economie proprio a causa della politica monetaria restrittiva della Bce? Perché nella seconda ipotesi non si vede come una crescita del Clup dovuta a recessione economica possa essere trasferita e recuperata dalle imprese che la subiscono attraverso prezzi praticati più elevati. Se la domanda che ha di fronte si riduce, come è possibile che qualunque produttore possa permettersi di aumentare i prezzi?
– Ho contestato in precedenti occasioni che il tasso tendenziale (di quanto in percentuale oggi i prezzi siano più alti di 12 mesi fa) possa essere un buon indicatore per orientare la politica monetaria dato che la velocità di crescita dei prezzi potrebbe essere cambiata durante i 12 mesi ma in tal caso il tendenziale non ce lo rivelerebbe. Qui invece non solo non si abbandona il tendenziale in favore di una misura più di breve periodo (ad esempio tasso trimestrale annualizzato), ma addirittura si va nella direzione opposta, facendo riferimento ai tassi medi annui, i quale dipendono da ben 24 mesi di dinamica dei prezzi al posto dei 12 del tendenziale.
Il tasso medio d’inflazione è dunque uno strumento “storico” che la Bce usa invece per decisioni prospettiche, come sono quelle sui tassi, dato che i tassi si pagano da qui in avanti, con rilevanti conseguenze, a fronte di prezzi che sono aumentati nel passato anche se non stanno più aumentando. E la Bce è ben consapevole di queste rilevanti conseguenze. Infatti, afferma: “I passati aumenti dei tassi di interesse continuano a trasmettersi con forza all’economia. Condizioni di finanziamento più restrittive stanno frenando la domanda e ciò sta contribuendo a spingere verso il basso l’inflazione. Gli esperti dell’Eurosistema prevedono che la crescita economica rimarrà contenuta nel breve termine. Oltre a ciò, si prevede che l’economia si riprenderà grazie all’aumento dei redditi reali – poiché le persone beneficiano del calo dell’inflazione e dell’aumento dei salari – e al miglioramento della domanda estera. Gli esperti dell’Eurosistema prevedono pertanto un aumento della crescita da una media dello 0,6% per il 2023 allo 0,8% per il 2024, e all’1,5% sia per il 2025 che per il 2026”.
Dunque, in sintesi, la politica monetaria restrittiva adottata ha drasticamente ridotto la domanda sino ad azzerare la crescita dell’Eurozona nell’ultimo trimestre, un dato che la Bce si è scordata di ricordare, tuttavia, secondo la Bce, i consumatori invertiranno la tendenza della domanda, che riprenderà a crescere:
– grazie ai maggiori salari, che però sono ben distanti dal recupero dell’inflazione dell’ultimo biennio;
– e grazie al calo dell’inflazione (ma il calo dell’inflazione lascia i prezzi più alti di prima, certo non più bassi).
Una domanda da porre alla Bce sorge dunque spontanea: ma se i salari sono già cresciuti, come la Bce afferma, e l’inflazione è già scesa, come affermano tutte le statistiche, perché la domanda dei consumatori sinora è crollata, mentre invece da qui in avanti dovrebbe miracolosamente recuperare?
Com’è possibile che una politica monetaria restrittiva, che ha drasticamente ridotto la domanda, possa, qualora proseguita senza pentimento, permettere gli effetti espansivi di una ripresa della domanda? La politica monetaria restrittiva espansiva sembra, infatti, apparire per la prima volta nei cieli della macroeconomia.
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