Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea tornerà a riunirsi il 2 febbraio. Fino ad allora difficilmente si potrà capire se gli appelli e le osservazioni giunti dall’Italia sulle conseguenze di un ciclo di rialzo dei tassi come quello annunciato a dicembre troveranno un qualche riscontro da parte dell’Eurotower, che da parte sua giustifica le sue mosse con il contrasto all’inflazione ben superiore, anche nel medio periodo, al target del 2%. Mario Deaglio, Professore emerito di Economia internazionale all’Università di Torino, ritiene che l’azione di una banca centrale possa essere «efficace contro i sintomi, ma molto poco contro le cause di un’inflazione che è di tipo nuovo rispetto al passato».
Perché?
Il nuovo tipo di inflazione deriva da guasti nelle lunghe catene del valore su cui si è basato lo sviluppo dell’economia globale negli ultimi 20-30 anni. Ciò vale, in particolare, per quattro di esse, che dopo lo scoppio della pandemia e la guerra in Ucraina sono saltate o continuano ad avere grosse criticità. La prima è quella agricola, basta pensare ai cereali e ai fertilizzanti che fino a prima del 24 febbraio arrivavano senza particolari problemi da Russia e Ucraina. La loro quantità oggi è diminuita e l’effetto sui prezzi di molti beni essenziali, e quindi sull’inflazione, è stato importante. La seconda è quella degli idrocarburi, di cui sappiamo tantissimo viste le conseguenze sulle bollette o sul pieno delle auto.
E le altre due catene che presentano criticità?
Una è quella relativa alla produzione di microchip, collegata alle difficoltà di Taiwan, che ha portato gli Stati Uniti a varare un gigantesco piano di aumento della produzione interna che potrebbe spingere anche alcune aziende europee del settore a trasferire le proprie fabbriche oltreoceano. L’altra è la catena dei trasporti, rallentata specie negli Usa, sia per la carenza di investimenti infrastrutturali che per le difficoltà di trovare autisti di autocarri. Le banche centrali non possono risolvere i problemi di queste catene del valore che incidono sull’inflazione. Devono essere i Governi a farlo, ma singolarmente possono poco, meglio se agiscono di concerto.
Questo chiama in causa l’Unione europea.
Sì, bisognerebbe che ci fosse innanzitutto una politica energetica comune. Mi rendo conto che è difficile da realizzare, ma intanto bisognerebbe provare a farlo, più e meglio di quanto non sia accaduto nel corso del 2022. Inoltre, occorrerebbe che ci fosse un’idea europea comune, che nei fatti e nelle decisioni dei singoli Stati non sembra emergere.
Pensando a quello che hanno deciso gli Usa sui microchip e con l’Ira servirebbero grandi investimenti, anche per cercare di non vedere penalizzate le imprese europee.
L’Europa sta cercando di muoversi nella stessa direzione degli Stati Uniti, anche se in maniera più disordinata. Bisognerebbe intanto che le politiche pubbliche favorissero gli investimenti nei settori più importanti, magari attraverso detassazioni mirate.
Cercare di non subire gli effetti delle politiche degli Usa e di fermare l’inflazione dovrebbe essere interesse di tutti. Perché non si riesce a trovare una linea comune?
È difficile mettere d’accordo 27 Paesi su decisioni che possono avvantaggiare più alcuni Paesi rispetto ad altri. Io credo che su alcuni specifici settori si possa cercare di bypassare questo problema, in attesa di capire come risolverlo, tramite collaborazioni tra singoli Paesi che decidono di unire le proprie forze, magari riuscendo poi a convincerne altri a fare fronte comune.
Il Presidente dell’Abi Patuelli ha invece evidenziato che nel 2023 potrebbero aumentare gli Npl, anche per le difficoltà delle imprese legate alla crescita dei tassi e dei costi dell’energia. Cosa ne pensa?
Credo che in primo luogo sia compito delle banche cercare di evitare che crescano gli Npl, cioè prima di erogare un credito devono verificare bene a chi lo stanno concedendo.
Certamente le banche devono eseguire al meglio questa verifica. C’è però da dire che forse non si aspettavano dalla Bce la volontà di una stretta così forte visto anche il contesto economico…
Sì, infatti non credo che la Bce abbia intenzione di seguire fino in fondo la Fed. Certo, se negli Stati Uniti si alzano i tassi e in Europa non si fa altrettanto il dollaro si apprezza sull’euro rendendo più costose le importazioni di materie prime energetiche con effetti negativi sull’inflazione, quindi, la Bce deve agire, ma credo lo farà in maniera “soft”.
Di fatto, quindi, le parole di Christine Lagarde dopo il Consiglio direttivo di dicembre su un lungo percorso di rialzo dei tassi appena all’inizio non devono essere prese alla lettera…
Non ho fonti particolari che me lo facciano dire con certezza, ma penso che sia così. Tante volte, del resto, le Banche centrali hanno fatto ricorso all’effetto annuncio.
(Lorenzo Torrisi)
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