Al Consiglio della Banca centrale europea del 21 luglio prossimo si conosceranno i dettagli dello “strumento” che darà corpo allo “scudo” per evitare che Stati dell’unione monetaria, caratterizzati da un alto debito della Pubblica amministrazione, subiscano un aumento troppo rapido dello spread tale da mettere a repentaglio le proprie prospettive di crescita.



Da oggi ad allora si terranno, in primo luogo, riunioni tecniche all’interno della Commissione europea, allargate successivamente a diplomatici ed esperti in servizio presso le Rappresentanze Permanenti a Bruxelles dei 19 Stati membri dell’unione monetaria e successivamente a dirigenti provenienti dalle varie capitali dell’area dell’euro. Il compito non è semplice: si tratta di elaborare una nuova forma di “condizionalità” che si accordi bene con quella della Recovery Facility del Next Generation Eu (che comporta “condizioni” settoriali e micro-economiche) e quella prevista dal Meccanismo europeo di stabilità (Mes), essenzialmente macro-economica. Le due tipologie di “condizionalità”, inoltre, devono essere coordinate e andare verso i medesimi obiettivi.



Parlare di “condizionalità” mentre è già in corso la campagna elettorale per le prossime elezioni politiche fa rizzare i capelli ai populisti e ai sovranisti sia di destra che di sinistra. Non solo è naturale che “gli altri” (ossia i 15 Stati che non hanno problemi seri di debito), che devono pur rispondere ai loro Parlamenti e ai loro elettori, chiedano condizioni per ulteriori finanziamenti. Come ricordammo su questa testata circa tre anni fa quando si parlava di “condizionalità” a proposito della Recovery Facility del Next Generation Eu, ci vorrebbe l’atteggiamento di Tevye, il povero lattaio ebreo nella Russia zarista che, nella memorabile commedia musicale Fiddler On the Roof (Un violinista sul tetto) diceva alle proprie figlie che chiedevano di avere corredi e doti consistenti: «Non c’è da vergognarsi se si è troppo indebitati e ci vengono chieste garanzie, ma non si deve neanche esserne orgogliosi».



Abbiamo anche ricordato che in varie occasioni che la “condizionalità” ha fatto davvero il bene dell’Italia. Ad esempio, la Banca mondiale ha esteso linee di credito alla Cassa del Mezzogiorno (principalmente per l’acquisto dall’estero di macchine utensili e componenti per la produzione industriale) sino al 1964; ciascuna linea di credito era accompagnata da condizioni relative non solo alle modalità per gli appalti, ma anche all’utilizzazione del finanziamento. La Banca esercitava un’attenta vigilanza. Grazie a questa condizionalità, «la Casmez – sostiene Amedeo Lepore nel libro “La Cassa per il Mezzogiorno e la Banca mondiale. Un modello per lo sviluppo economico italiano”, Rubettino, 2013 – è stata molto di più di una intuizione felice. Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso gareggiava per efficienza ed efficacia con la banca di sviluppo tedesca Kreditanstalt für Wiederaufbau».

Differente la situazione delle linee di credito del Fondo monetario internazionale, di norma sono per evitare crisi di breve termine e hanno condizionalità tarate a questi obiettivi. Interessante il prestito stand by all’Italia del 1974, fortemente voluto nel nostro Paese dal ministero del Tesoro (allora guidato da Emilio Colombo) e dalla Banca d’Italia (allora governata da Guido Carli) perché le condizioni relative alla finanza pubblica avrebbero impedito quella che sarebbe stata una crisi della bilancia dei pagamenti e del tasso di cambio della lira. Si legga il breve saggio di Marcello de Cecco “Italy’s Payments Crisis: International Responsibilities” in International Affairs (Royal Institute of International Affairs) Vol. 51, No. 1 (Jan., 1975), pp. 3-22. 

Cosa avviene se non si ottempera alle condizioni? In Banca mondiale si può bloccare l’erogazione della parte del prestito o credito non ancora erogata e cessare di fare prestiti al settore sino a quando non vengono adottate misure adeguate. Provvedimenti analoghi al Fmi e così pure nel Recovery Fund. Ma c’è soprattutto la sanzione in termini di reputazione internazionale. Nel novembre 1967, la Gran Bretagna dovette svalutare dopo infruttuose trattative con il Fondo e ciò pose fine all'”area della sterlina”, una perdita pari a quella dell’Impero. 

Occorre, poi, pensare che i cinque Stati che hanno fatto ricorso al Mes (in Italia visto da molti come la peste nera), ossia Portogallo, Spagna, Irlanda, Cipro e Grecia hanno aumentato consumi e Pil pro capite con tassi superiori al nostro Paese. Il Mes ha due predecessori con acronimi infelici: il Fesf (Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria) e Mesf (Meccanismo Europeo di Stabilità Finanziaria) i quali hanno prestato alla Grecia circa 217 miliardi tra il 2011 e 2015, 50 miliardi al Portogallo, 41,3 alla Spagna (che li ha usati in parte solo per la ricapitalizzazione delle banche), 17,7 all’Irlanda e alla piccola Cipro 6,3. Si è trattato di un modo per evitare che questi Paesi si indebitassero con il mercato a tassi decisamente più alti, ammesso che ci sarebbero riusciti. Basta un dato per capire di cosa stiamo parlando: la durata media del debito ellenico verso il Mes è di più di 32 anni, un periodo così lungo per restituire un prestito la Grecia non avrebbe mai potuto ottenerlo in altro modo.

Quindi, al di là delle narrative fantasiose, è urgente attrezzarsi presto per un negoziato serio sulla “condizionalità” del nuovo strumento e al coordinamento con quelle della Recovery Facility del Next Generaion Eu e del Mes.

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