Se col cannocchiale guardiamo una stella lucente non possiamo essere sicuri che quella stella esista ancora. Potrebbe essere scomparsa nel tempo necessario alla sua luce per arrivare sino a noi. E non è necessario essere dei bravi astronomi per tener conto dell’ipotesi che possa trattarsi di un’illusione ottica, bastano probabilmente i pochi studi di scienze fatti durante la scuola dell’obbligo.
Passiamo a un secondo esempio. Ipotizziamo di stare guidando un’auto e di porci la domanda se sia opportuno rallentare dato il limite di velocità a 50 km orari. Il tachimetro ci informa che stiamo viaggiando a 40 all’ora mentre l’amico che è al nostro fianco ci ricorda che nell’ultima ora abbiamo percorso esattamente 60 chilometri. Qual è l’informazione rilevante per la nostra decisione? La velocità attuale o quella passata ricordata dall’amico? Ovviamente la prima, tanto che potremmo anche lievemente accelerare, avendo ancora un margine.
Per il terzo esempio dobbiamo invece spostarci a Francoforte, nel palazzo della Bce, ove il Board della Banca cerca, manovrando sui pedali dei tassi d’interesse, di frenare l’inflazione dell’Eurozona. Su quali informazioni si dovrebbe basare per capire se e quanto premere ancora sul freno oppure se è arrivato il momento di allentare la presa? Verrebbe spontaneo dire che dovrebbe basarsi sulla velocità attuale di crescita dei prezzi al consumo e non su quella basata su qualche intervallo più o meno ampio di tempo e dunque potenzialmente ingannevole, come l’informazione dell’amico che viaggia con noi o la luce della stella lontana che non esiste più.
La misura più vicina a noi sulla crescita dei prezzi è di quanto essi siano aumentati nell’ultimo mese disponibile, dunque in dicembre rispetto a novembre. Sia nell’eurozona che in Italia, usando per ambedue l’indice europeo armonizzato dei prezzi IPCA, questa crescita è stata dello 0,16% (usiamo due decimali per essere più precisi), un dato che annualizzato ci porta a una crescita annua dell’1,96% per l’eurozona e dell’1,99% per l’Italia. Poiché il limite di velocità dei prezzi seguito dai banchieri centrali, esplicito nel caso della Bce, è il 2%, esso è stato rispettato nell’ultimo mese e dunque non si dovrebbe continuare a premere sul freno per abbassare ulteriormente la velocità.
Se poi abbiamo dei dubbi sul basarci solo sul dato dell’ultimo mese, che potrebbe essere influenzato da componenti straordinarie, aumentiamo l’intervallo di osservazione e passiamo ad esempio a tre mesi. Nell’ultimo trimestre dell’anno i prezzi nell’eurozona sono addirittura diminuiti, dello 0,3%, e in Italia hanno fatto altrettanto. A questo punto aumentiamo ancora l’intervallo di osservazione, a sei mesi, e scopriamo che in eurozona nel secondo semestre del 2023 i prezzi al consumo sono aumentati solo di mezzo punto, equivalente a un punto annuo, mentre in Italia si sono abbassati di un decimo. Facciamo un ultimissimo sforzo e consideriamo gli ultimi nove mesi disponibili. In questo caso i prezzi nell’eurozona risultano aumentati dell’1,4% e in Italia dell’1,2%, tassi che annualizzati diventano rispettivamente l’1,9% e l’1,6%.
In sostanza, almeno negli ultimi tre trimestri, i prezzi al consumo in Europa, così come in Italia, si sono stabilmente tenuti sotto il valore del 2% che è l’obiettivo della Bce. Nel caso italiano in realtà ben oltre gli ultimi nove mesi, infatti nei quindici mesi tra ottobre 2022 e dicembre 2023 essi sono cresciuti solo dell’1,4%, dato che corrisponde all’1,1% su base annua. Nell’eurozona non si è però verificato lo stesso fenomeno e, siccome nell’autunno del 2022 l’indice dei prezzi era diminuito, il tendenziale dello scorso dicembre è stato del 2,9%, in risalita dal 2,4% di novembre.
Purtroppo la Bce guarda solo al tasso tendenziale e anche se almeno negli ultimi dieci mesi non vi è stato alcun segnale di tensione sui prezzi e con qualunque intervallo misuriamo la loro velocità stiamo sempre sotto il 2%, la Bce sembra orientare le sue scelte solo in base a quei nove decimali che per ragioni statistiche continuano a eccedere il 2%. L’inflazione non esiste più in Europa ma, così come la stella scomparsa, continua a irradiare la sua luce statistica sulle vetrate dell’Eurotower di Francoforte.
Nella riunione di ieri il board della Bce ha dunque deciso di lasciare invariati i tassi, pur riconoscendo che “la tendenza al ribasso dell’inflazione di fondo è proseguita”, ma dando erroneamente il merito al passato rialzo dei tassi. In realtà, come abbiamo dimostrato in precedenti occasioni, i tassi Bce sono stati aumentati per la maggior parte quando i prezzi avevano già smesso di crescere e dunque non possono esserne stati la causa. Nel comunicato stampa di ieri si leggono tre interessanti affermazioni:
1) “I passati incrementi dei tassi di interesse continuano a trasmettersi con vigore alle condizioni di finanziamento”.
2) “Le condizioni di finanziamento restrittive frenano la domanda, contribuendo al calo dell’inflazione”.
3) “Il Consiglio direttivo è determinato ad assicurare il ritorno tempestivo dell’inflazione all’obiettivo del 2% a medio termine. In base alla sua attuale valutazione, ritiene che i tassi di interesse di riferimento della Bce si collochino su livelli che, mantenuti per un periodo sufficientemente lungo, forniranno un contributo sostanziale al conseguimento di tale obiettivo. Le decisioni future del Consiglio direttivo assicureranno che i tassi di riferimento siano fissati su livelli sufficientemente restrittivi finché necessario”.
La prima affermazione, sugli effetti restrittivi del credito, è verissima, basta chiedere a qualsiasi impresa senza neppure andare a cercare le statistiche. La seconda affermazione è mezza vera, infatti le condizioni restrittive frenano la domanda, e mezza falsa, dato che la frenata della domanda in realtà ha azzerato la crescita economica, se non addirittura messo il segno meno davanti ai tassi del Pil reale, ma non ha contribuito al calo dell’inflazione dato che è avvenuto quasi tutto prima. La terza affermazione appare naif… Il ritorno tempestivo dell’inflazione tendenziale al 2% non ha proprio bisogno della Bce, ma solo del fattore tempo, appena il paio di mesi che serve per togliere dal calcolo del tendenziale l’inizio del 2023 in cui l’indice nell’eurozona era diminuito.
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