Essere la voce di chi alla propria voce ha dovuto rinunciare, il trait d’union tra chi non può parlare e chi è libero di ascoltare: Masih Alinejad è il simbolo delle donne iraniane che si ribellano contro l’hijab forzato, in altre parole è un vero e proprio emblema della libertà. La rivoluzione khomeinista del 1979 ha avuto riflessi consistenti sulla vita delle donne – dalle restrizioni agli studi al divieto di entrare negli stadi, poi ripristinato -, ma l’imposizione più resistente e difficile da eclissare resta l’obbligo di indossare il velo. 



Costretta a fuggire dall’Iran per le sue inchieste sulle brutalità del regime, Masih Alinejad è diventata il megafono di chi è rimasto in patria. Il documentario Be my voice di Nahid Persson (dal 7 marzo al cinema grazie a Tucker Film, in collaborazione con Pordenone Doc Fest – Le Voci del Documentario) ci consente di riflettere sul coraggio di una donna disposta a tutto per difendere la libertà. Grazie ai social network, infatti, la giornalista è riuscita a guidare uno dei più grandi atti di disobbedienza civile nell’Iran di oggi: via il velo e capelli al vento. Una missione con uno scopo ben preciso: non tanto mettere in discussione l’hijab in quanto tale, quanto tornare ad avere controllo sul proprio corpo. Un valore che noi diamo per scontato, ma che a Teheran e dintorni viene punito con il carcere e altre pene durissime. 



Dalla famiglia agli amici, passando per la casa e le memorie, Masih Alinejad ha perso tutto e deve fare quotidianamente fare i conti con insulti e minacce di morte, basti pensare che recentemente è stato sventato in extremis un tentativo di sequestro. Nonostante le difficoltà e i continui ostacoli, la blogger originaria di Ghomi Kola non ha mai pensato di abbandonare la sua gente, continuando a criticare e boicottare il regime iraniano per ribadire un principio fondamentale: le leggi che obbligano a indossare o vietano di indossare capi d’abbigliamento sono contrarie ai diritti. 

Masih è un’icona, ora la palla passa alle nuove generazioni: come conferma la sua storia, se tutti noi piantassimo un seme, sarebbe un mondo pieno di fiori.



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