Non è un documentario Beastie Boys Story e a ben guardarlo sembra che al regista Spike Jonze interessi dargli una forma sfuggente, poco etichettabile. E forse è l’unico modo per raccontare la storia di un gruppo sgangherato che cambiò la storia della musica americana degli anni ’80.
Perché Mike D e AD Rock, assieme allo scomparso Adam Yauch alias MCA, diedero uno scossone al mondo del rock e dell’hip hop e il film lo racconta attraverso le voci dei due superstiti su un palco, durante una serie di spettacoli di cui il film sembra un po’ la ripresa. Durante gli spettacoli e durante il film i due ricordano, raccontano con un piglio tra il nostalgico e il sagace, mentre sullo schermo dietro di loro e davanti lo spettatore appaiono i frammenti di una vita.
Jonze, che del gruppo ha diretto alcuni dei videoclip più belli e innovativi come Sabotage, ha scritto assieme ai Boys lo spettacolo e poi realizzato la versione cinematografica, approdata su AppleTv+ e ha forse realizzato quello che è un omaggio sincero e originale a una band, ma anche un modo per mettere da parte la nostalgia un po’ ammuffita dietro ogni celebrazione degli anni ’80.
Un po’ romanzo autobiografico, un po’ teatro comico (i due citano i Monty Python tra le fonti di ispirazione e qui ricordano il loro spettacolo One Down, Five to Go), Beastie Boys Story è un racconto di formazione di un gruppo di adolescenti un po’ geniali e un po’ scemi che trovano il loro modo di essere ed esprimersi nel confusionario underground di New York, perché a quella confusione riescono a dare voce e carica e poi, con la maturità anche una forma artistica, sperimentando un hip hop bianco che non scimmiotti le autorità del ghetto, ma che viva di elettronica e punk rock.
Jonze accompagna questo flusso di cui è stato tra i canalizzatori e al tempo stesso vi gioca contro, cerca di spezzare il ritmo e la ritualità quando sta per diventare passatista, ma le dà mano forte quando fa esplodere la carica della band, la loro intelligente vitalità, la loro sfacciataggine da ragazzini in cerca di divertimento, come nella gustosa apparizione del loro primo artigianalissimo campionatore.
Certo, verso il finale il film perde ritmo e il tributo a Yauch prende un po’ la mano, ma non diventa mai enfatico e resta sempre la sincerità di uno zibaldone caotico a cui cercare di dare un ordine, come quando ci si ritrova davanti a uno scatolone di ricordi nascosti. Un ordine di cui alla fine tornare a disinteressarsi (come nella raccolta di scarti tagliati al montaggio durante i titoli di coda), in nome del divertimento e della purezza istintiva di quei ricordi.